In Senegal la rabbia dei manifestanti viene da lontano
Tutto è cominciato il 3 marzo con l’arresto del principale oppositore del governo, Ousmane Sonko. Da quel momento il Senegal è esploso, come se i giovani del paese, senza speranze e senza illusioni in un contesto aggravato dalle restrizioni antipandemia, non aspettassero altro che una scintilla.
In quattro giorni di rivolte si contano già cinque morti, decine di feriti e saccheggi di massa, in un paese che secondo le parole proferite il 7 marzo da Alioune Badara Cissé, il difensore civico nella repubblica del Senegal, si trova “sull’orlo dell’apocalisse”. Una situazione incredibile per uno stato che quarant’anni fa era all’avanguardia della democratizzazione dell’Africa occidentale e che oggi sembra non solo incapace di affrontare le sfide dello sviluppo ma anche minacciato dalla regressione politica.
Gli eventi sono andati ben oltre la vicenda Sonko. L’oppositore, arrivato terzo alle elezioni presidenziali del 2019, è accusato di “stupro e minacce di morte”, ma si professa innocente. I suoi sostenitori parlano di un complotto per eliminarlo.
Il silenzio del governo
La crisi è ormai politica e sociale, e minaccia di degenerare ulteriormente. Un collettivo di oppositori ha indetto tre giorni di manifestazioni a partire dall’8 marzo.
Il governo, da parte sua, tace. Il ministro dell’interno ha rilasciato una prima dichiarazione controproducente in parlamento parlando di “atti di natura terrorista”, ma il presidente Macky Sall, al potere da quasi un decennio, si trincera dietro un pesante silenzio.
La crisi evidenzia la difficoltà per la Francia di cambiare la propria immagine nell’Africa francofona
Il 7 marzo il difensore civico Alioune Badara Cissé, ex collaboratore di Sall, ha rilasciato una dichiarazione inconsueta, rivolgendosi direttamente al presidente: “I senegalesi vogliono ascoltarla, perché diavolo non parla? Si faccia avanti prima che sia troppo tardi”.
Con i toni da uomo di stato, Cissé ha elencato le difficoltà dei giovani, che a suo parere non hanno altra prospettiva se non quella di “attraversare gli oceani senza alcuna protezione”, un’allusione ai migranti che partono a bordo di semplici piroghe per raggiungere l’Europa e spesso muoiono in mare. “Era prevedibile che arrivasse il momento in cui sarebbe saltato il coperchio”.
La dichiarazione di Cissé è stata elogiata unanimemente sui social network, che ricoprono un ruolo di primo piano nella crisi.
Alcuni manifestanti hanno attaccato i simboli di una presenza francese giudicata troppo ingombrante: supermercati Auchan, pompe di benzina Total, autostrade a pedaggio Eiffage. La Francia è accusata di proteggere il presidente, considerato troppo vicino a Emmanuel Macron.
La crisi evidenzia la difficoltà per la Francia di cambiare la propria immagine nell’Africa francofona dopo l’epoca della Françafrique e delle reti di influenza. Macron ha cercato di presentarsi come presidente giovane e dunque diverso. Ricordiamo ancora il suo dialogo con i giovani africani a Ouagadougou in occasione della sua prima visita ufficiale in Africa, nel 2017. Eppure, che lo si voglia o meno, la Francia resta la vecchia potenza coloniale, e il desiderio di cambiamento è rivolto anche verso Parigi.
Questa crisi senegalese va presa assolutamente sul serio, perché evidenzia il fallimento di un sistema di governo postcoloniale arrivato al capolinea.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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