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Il razzismo antiasiatico che ha portato alla strage di Atlanta

Una veglia per la strage di Atlanta a Washington, negli Stati Uniti, 17 marzo 2021. (Alex Wong, Getty Images)

Da mesi milioni di asiatici che vivono negli Stati Uniti temevano questo momento. La sera del 16 marzo un uomo armato ha attaccato tre centri per i massaggi in un sobborgo di Atlanta, capitale della Georgia. Otto persone sono state uccise, di cui sei di origine asiatica e quasi tutte donne. L’aggressore, Robert Aaron Long, giovane bianco di 21 anni, è stato subito fermato dalla polizia e ha negato di aver commesso un atto razzista.

Ma per molti statunitensi quest’azione criminale è difficile da fraintendere. Il presidente Joe Biden ha dichiarato di “comprendere l’angoscia degli asiatici-americani”. Il 12 marzo, quattro giorni prima degli attentati di Atlanta, il Washington Post aveva publicato un editoriale dal titolo: “L’aumento delle aggressioni contro gli asiatici-americani merita attenzione e risposte rapide”. L’odio è stato più veloce.

L’ultimo rapporto del Centro contro l’odio verso gli asiatici e le persone originarie del Pacifico, pubblicato il giorno degli omicidi, riferiva di 3.800 episodi contro questa comunità dall’inizio della pandemia. Al di là del massacro di Atlanta, ancora senza una spiegazione, la realtà dei fatti è evidente.

Le responsabilità di Trump
I dati non lasciano spazio alle ambiguità. L’aumento del razzismo coincide con la pandemia. Gli asiatici-americani ritengono in parte responsabile Donald Trump, che non ha mai smesso di parlare di “virus cinese” e si è lasciato guidare dall’ossessiva rivalità con Pechino. In questo modo Trump ha corso il rischio di trasformare la sua personale ostilità nei confronti del regime cinese in un odio generalizzato verso tutti i cinesi.

Non per niente l’Organizzazione mondiale della sanità ha chiesto di non legare il nome di una malattia al paese in cui è comparsa, per evitare qualsiasi stigmatizzazione, anche perché è assurdo pensare a una responsabilità collettiva per un virus.

Un aumento delle aggressioni verbali e fisiche contro le persone di origine asiatiche è emerso anche in Europa

Trump, quando era presidente, non ha mai smesso di soffiare sulle braci del razzismo, in un’annata segnata dalla morte di George Floyd e dal movimento Black lives matter oltre che dalla crescita di un nazionalismo bianco che si è manifestato nell’assalto al congresso del 6 gennaio.

Gli Stati Uniti non sono gli unici a vivere un aumento delle aggressioni verbali e fisiche contro le persone di origine asiatiche. Il fenomeno è emerso anche in altri paesi, tra cui alcuni europei.

L’anno scorso, in Francia, alcuni giovani avevano lanciato l’hashtag #je-ne-suis-pas-un-virus per rispondere a una campagna d’odio online. Da anni la nutrita comunità asiatica francese è sulla difensiva, vittima di aggressioni dovute a stereotipi tenaci e di un sentimento di abbandono da parte delle autorità.

Nessuno, purtroppo, ha il monopolio del razzismo. L’anno scorso alcuni africani sono stati vittime di abusi a Canton, quando il virus martoriava la Cina.

I periodi segnati dalle epidemie favoriscono la ricerca di un capro espiatorio e l’emergere di divisioni, soprattutto in questi tempi caratterizzati da un’esasperata affermazione identitaria. Una ragione di più perché i potenti diano l’esempio, anziché fomentare l’odio come ha fatto Trump per tutto il 2020. Le parole possono uccidere. È una lezione universale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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