L’esercito birmano ha le mani libere per reprimere la democrazia
Ormai da quattro mesi i militari birmani hanno preso il potere e sottopongono a una repressione feroce la popolazione che ancora resiste. Le divisioni internazionali impediscono qualsiasi azione efficace per ristabilire l’ordine costituzionale nel paese, e così i generali sentono di avere le mani libere per schiacciare qualsiasi resistenza.
L’ultimo episodio è l’ordine della commissione elettorale, controllata dai militari, di sciogliere la Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi che aveva ottenuto una vittoria netta alle elezioni legislative del novembre 2020. Confinata agli arresti domiciliari e privata della libertà di parola e di movimento, la premio Nobel per la pace dovrà comparire il 24 maggio davanti a un tribunale, accusata di frode elettorale.
Si tratta evidentemente di un pretesto per legittimare il colpo di stato ed escluderla definitivamente dalla vita politica.
La portata della repressione è considerevole: oltre 800 morti in poco più di cento giorni, 4.300 manifestanti arrestati e senza alcuna assistenza legale, più di 125mila insegnanti (ovvero un terzo del totale) sospesi per aver partecipato ad atti di disobbedienza civile.
Questi numeri danno un’idea della resistenza contro cui si scontrano i militari. Le manifestazioni e gli scioperi proseguono quotidianamente malgrado il pericolo.
Il rischio di una guerra civile è concreto, perché molti giovani sono ormai convinti che la disobbedienza civile non basterà a rovesciare i generali e si uniscono alla guerriglia armata.
Ai gruppi armati aderiscono i giovani delle città che si oppongono all’esercito
Da decenni in Birmania sono in atto numerose rivolte armate delle minoranze etniche, più o meno attive. Quando era al potere, Aung San Suu Kyi aveva avviato un negoziato ed era riuscita a spegnere alcuni focolai, anche se non tutti.
Oggi questi gruppi armati accolgono i giovani delle città che si oppongono all’esercito e vogliono sfuggire alla persecuzione. In questi giorni si segnalano diversi attacchi armati contro le forze di sicurezza. Il 24 maggio è stata colpita una stazione di polizia nell’est del paese, facendo 13 morti. Un altro attacco, nei pressi della frontiera cinese, ha provocato una ventina di vittime.
Oggi esiste il rischio reale di assistere a un aumento della violenza, quella contro l’opposizione civile ma anche quella dei gruppi armati. Alcuni analisti parlano di minaccia di “sirianizzazione” della crisi birmana.
Il problema è che il Consiglio di sicurezza dell’Onu è diviso sulla vicenda birmana come su tutti i temi attuali, a causa dell’opposizione tra Stati Uniti da un lato e Russia e Cina dall’altro. La stessa passività è presente all’interno dell’Asean, l’Associazione dei paesi del Sudest asiatico, che si nasconde dietro il principio della non ingerenza. Il gruppo petrolifero francese Total, dal canto suo, si è rifiutato di interrompere i pagamenti delle tasse al governo birmano.
Questo mix di indifferenza e realpolitik lascia i birmani soli e disarmati contro un esercito pronto ad andare fino in fondo nella repressione.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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