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Le tre vite di Desmond Tutu

Città del Capo, Sudafrica, 7 ottobre 2021. Un murale per Desmond Tutu restaurato nel giorno del suo compleanno dopo che era stato danneggiato. (Jaco Marais, Die Burger/Gallo Images/Getty Images)

Desmond Tutu ha vissuto tre vite: il liberatore, il riconciliatore, la bussola morale. Tre vite di lotta e di fede, strettamente interconnesse, ricompensate con la sconfitta dell’abominevole sistema dell’apartheid ma deluse dall’incostanza dei successori di Nelson Mandela.

Come corrispondente dell’agenzia France-Presse a Johannesburg sono stato testimone della prima vita di Tutu, alla metà degli anni settanta, quando è emerso come portavoce di chi non aveva voce mentre i leader della maggioranza nera erano in prigione o in esilio. La domenica andavo ad ascoltarlo nella chiesa Regina Mundi di Soweto, l’immensa baraccopoli nera di Johannesburg, dove infiammava le folle. Fuori della chiesa era pieno di blindati della polizia, con gli agenti innervosisti da assembramenti che tuttavia erano difficili da vietare in un paese che si dichiarava cristiano.

Tutu usava come arma il suo umorismo graffiante, diffondendo una parola biblica che contrastava con tutti quelli che all’interno del potere bianco giustificavano l’apartheid in nome della fede cristiana. E, soprattutto, trasmetteva speranza, e nel periodo più oscuro dell’apartheid bisognava essere molto persuasivi per osare coltivare il sogno della libertà per i neri, come aveva fatto in passato Martin Luther King.

Tutu era anche una bussola morale. Pur avendo partecipato alla lotta contro l’apartheid, al punto da ricevere il premio Nobel per la pace nel 1984 e creare successivamente la Commissione della verità e della riconciliazione, non ha mai sacrificato la propria libertà di pensiero all’impegno politico.

Tutu era arrivato ad annunciare pubblicamente che non avrebbe più votato per l’African national congress

Sia prima che dopo l’apartheid, Tutu non è mai stato compiacente con i suoi amici. Quando negli anni ottanta le township sprofondavano nella violenza Tutu interveniva per impedire il linciaggio di quelli che la folla considerava come collaboratori del regime. “Non comportatevi come loro”, ammoniva, rischiando la sua incolumità.

Ma è soprattutto dopo l’unico mandato del suo amico Nelson Mandela che Tutu è diventato il punto di riferimento morale di cui il Sudafrica aveva bisogno, denunciando tutte le derive dei successori di “Madiba” a cominciare dalla corruzione e dal nepotismo degli ex liberatori che si credevano in diritto di fare tutto ciò che volevano in nome dei sacrifici passati.

La grande delusione della sua vita è stata senza dubbio quella di vedere la speranza di una “nazione arcobaleno” (una sua espressione) minata dalle stesse persone che aveva accompagnato fino al potere.

Tutu era arrivato ad annunciare pubblicamente che non avrebbe più votato per l’African national congress, l’Anc di Mandela, quando Jacob Zuma, all’epoca presidente, aveva cominciato a depredare sistematicamente il paese. Zuma, che oggi rischia il carcere per corruzione, ha finito per rovinare l’eredità della lotta di liberazione che prometteva un futuro migliore.

Alla morte di Mandela, nel 2013, era toccato a Desmond Tutu concludere l’omaggio ufficiale nel grande stadio di Johannesburg, suggello della sua autorità morale incontrastata. In quell’occasione l’arcivescovo in pensione aveva imposto un silenzio totale alla folla, facendole promettere “davanti a dio” di restare fedele “all’esempio di Mandela”.

Oggi possiamo parlare dell’esempio di Mandela e di Tutu, ma purtroppo il Sudafrica, pur piangendo i suoi eroi, fatica a esserne all’altezza.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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