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In Birmania il massacro continua nel silenzio generale

Tokyo, 26 dicembre 2021. Birmani residenti in Giappone manifestano per le persone uccise dall’esercito dopo il colpo di stato. (The Yomiuri Shimbun/Ap/LaPresse)

Dopo il colpo di stato militare dello scorso febbraio la Birmania vive una repressione costante, mentre tutti gli appelli a esercitare una pressione internazionale contro la giunta sono rimasti lettera morta.

L’ennesima tappa di questa discesa agli inferi è il massacro di 35 persone il 24 dicembre, tirate fuori dai veicoli, uccise e bruciate. Due dipendenti dell’ong internazionale Save the children che si trovavano all’interno di uno dei minibus carbonizzati risultano attualmente dispersi.

Questa tragedia è accaduta nei pressi di un villaggio abitato dalla minoranza cristiana nello stato di Kayah, nell’est del paese. Gli abitanti del villaggio erano in fuga dagli scontri tra i militari e un gruppo di oppositori armati.

Le Nazioni Unite si dicono “sconvolte” dal massacro, il più grave dall’inizio della repressione, dieci mesi fa. Eppure il segretario generale aggiunto dell’organizzazione non può far altro che chiedere una “indagine approfondita” sull’accaduto, ovvero sostanzialmente nulla.

Da quando hanno rovesciato il governo e messo agli arresti domiciliari Aung San Suu Kyi, i militari non sono riusciti a stabilizzare la situazione. Malgrado la repressione feroce, infatti, la resistenza attiva e passiva della popolazione non si ferma.

Aung San Suu Kyi malgrado tutto resta il punto di riferimento per la maggioranza della popolazione

Fatto ancora più preoccupante, migliaia di giovani sono entrati nei ranghi delle milizie etniche esistenti da tempo, e oggi diversi focolai di resistenza armata si oppongono alla giunta. Questa resistenza ha poche possibilità di imporsi a breve termine, ma al contempo l’esercito non è in grado di stroncarla (come dimostra la storia degli ultimi decenni). Intanto decine di migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case.

In questa impasse totale i militari non si fermano. Nei prossimi giorni la giunta annuncerà la pena carceraria per Aung San Suu Kyi, che malgrado tutto resta il punto di riferimento per la maggioranza della popolazione.

“La Birmania diventerà uno stato fallito”, scrive lo storico birmano-americano Thant Myint-U sulla rivista Foreign Affairs. “Nuove forze approfitteranno di questo fallimento per sviluppare la già prospera industria delle metanfetamine (una droga sintetica), abbattere le foreste che costituiscono una delle grandi aree della biodiversità del mondo e promuovere il traffico di animali selvatici, compresi quelli che potrebbero essere all’origine della diffusione della pandemia di covid-19”.

Questa previsione tetra dello storico, nipote del segretario generale dell’Onu dal 1961 al 1971 U-Thant, dovrebbe essere sufficiente a mobilitare i paesi della regione e le grandi potenze per spegnere l’incendio birmano il più velocemente possibile. Ma i paesi del sudest asiatico sono divisi a proposito della possibilità e della necessità di agire, mentre la comunità internazionale è polarizzata. Tutto questo rende impossibile qualsiasi consenso, soprattutto considerando la vicinanza geografica tra la Birmania e la Cina.

L’aspetto peggiore è l’indifferenza generale. La Birmania è ormai sparita dall’agenda dei mezzi d’informazione, tranne quando un massacro va oltre le normali tragedie. È il caso di oggi, ma il timore è che non cambierà nulla.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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