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Due anni fa arrivavano le prime notizie su un misterioso virus a Wuhan

Wuhan, Cina, 29 marzo 2020. Un uomo cammina accanto alle barriere poste lungo le strade di Wuhan, epicentro della diffusione dell’epidemia da covid-19. (Aly Song, Reuters/Contrasto)

Il 30 dicembre 2019, precisamente due anni fa, sui social network cominciavano a circolare le prime informazioni sui malati di Wuhan, nel centro della Cina. Le autorità cinesi reagirono negando, reprimendo e lasciando trascorrere diverse settimane che sarebbero state cruciali per arrestare la diffusione del virus.

Eppure il 31 dicembre le autorità mediche di Taiwan inviarono una email all’Organizzazione mondiale della sanità a Ginevra per segnalare questi elementi non confermati. “Apprezzeremmo se aveste informazioni pertinenti da condividere con noi”, precisava il messaggio di Taipei. L’Oms non ha mai risposto, perché Taiwan non fa parte dell’organizzazione a causa del blocco cinese.

Il 1 gennaio 2020 il profilo Twitter del quotidiano cinese Global Times annunciava che otto persone erano state arrestate a Wuhan per “diffusione di notizie infondate” a proposito di un’epidemia. Sappiamo come sono andate le cose in seguito. Quelle persone erano fonti d’informazione preziose, e uno di loro, il dottor Li Wenliang, è morto di covid poche settimane dopo.

Cifre ufficiali
Quale lezione possiamo trarre da quegli eventi? L’inizio della catastrofica pandemia ci ha lasciato due insegnamenti: il primo interno alla Cina, il secondo sul sistema di sorveglianza sanitaria internazionale.

Nelle prime settimane la Cina ha negato tutto, per poi tracciare un bilancio molto positivo della sua gestione della pandemia. Il 29 dicembre 2021 l’ambasciata di Cina in Francia ha scritto su Twitter che il paese, dove vive il 18 per cento della popolazione mondiale, registra appena lo 0,05 per cento di morti per covid. Naturalmente queste sono le cifre ufficiali.

Pechino continua a fare ostruzionismo rispetto a una reale inchiesta per fare luce sulle origini della pandemia

Al contempo la Cina è chiusa da due anni e non riesce a imporre la sua strategia “zero covid”, come dimostra l’isolamento di 13 milioni di abitanti della città di Xi’an a causa di appena poche decine di casi di contagio.

Ma soprattutto Pechino continua a fare ostruzionismo rispetto a una reale inchiesta per fare luce sulle origini della pandemia, ancora sconosciute. Considerata la politicizzazione del dibattito è possibile che non sapremo mai la verità, tra l’incidente di laboratorio, la trasmissione animale o altre ipotesi. Dal punto di vista scientifico questo è un disastro.

Necessità di riforma
Sul piano internazionale in quelle prime settimane l’Oms non ha ricoperto il suo ruolo di istituzione vigile, allineandosi alla versione cinese per ragioni politiche. In seguito l’agenzia delle Nazioni Unite si è rimessa in carreggiata, e oggi svolge un lavoro prezioso coordinando la battaglia contro la pandemia.

Queste mancanze evidenziano però la necessità di una profonda riforma. Il mese scorso, su iniziativa dell’Unione europea, l’Oms ha lanciato un negoziato su un nuovo trattato internazionale. Il testo avrà come obiettivo quello di “prevedere, prevenire, individuare e valutare” le pandemie del futuro, coordinando meglio la risposta.

È una buona notizia, a condizione che gli stati facciano la loro parte. Il problema è che sia gli Stati Uniti sia la Cina detestano i trattati troppo vincolanti, che tuttavia sono indispensabili quando si parla di sanità, come dimostrano gli eventi di due anni fa. La trattativa è appena cominciata. Resta da verificare se i potenti del mondo avranno imparato la lezione della pandemia attuale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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