La partenza delle truppe francesi dal Mali, annunciata il 17 febbraio, segna la fine dolorosa di un ciclo, oltre che un salto nel buio. Il ciclo è quello dell’intervento militare francese, cominciato con successo nel 2013 quando fermò una colonna jihadista diretta a Bamako e concluso con un senso di fallimento e di missione non compiuta. Ma è anche quello, in senso più ampio, dei grandi interventi militari occidentali.
In Mali la Francia paga la distanza tra il successo di tattiche come l’eliminazione sistematica dei capi jihadisti e il sentimento di insicurezza della popolazione di una zona sempre più vasta del Sahel, tra i mezzi di un grande esercito occidentale e il senso di impotenza di fronte ai ripetuti massacri.
La Francia è stata travolta dall’accelerazione degli eventi, e oggi deve partire a causa delle pressioni. Il degrado dei rapporti con la giunta militare maliana e l’ostilità crescente della popolazione hanno portato alla fine della presenza francese. I mercenari russi della Wagner hanno semplicemente assestato il colpo di grazia.
I vertici francesi lo hanno ripetuto diverse volte: l’esercito francese non lascerà il Sahel, dove la partita per la sicurezza è diventata ancora più importante perché si sta allargando verso i paesi più a sud come Costa d’Avorio, Togo e Benin.
Tuttavia nessuno pensa di riproporre un dispositivo simile a quello dell’operazione Barkhane, unicamente francese, e la forza Takuba, con la collaborazione di diversi paesi europei. Prima di tutto perché i paesi della regione non lo desiderano (tenendo conto del sentimento della popolazione), ma anche perché la Francia non vuole ripetere gli errori del passato.
Difficile non accorgersi che tutti i grandi interventi militari occidentali degli ultimi vent’anni sono falliti
Dunque le forze francesi opereranno, come ha confermato un responsabile, “sotto i radar”, ovvero in modo meno visibile. Ma saranno anche più efficaci? Questa è la grande incognita che determinerà la sicurezza in questa parte dell’Africa per gli anni a venire.
Meno eserciti e più politica: il 16 febbraio una coalizione di gruppi della società civile della regione ha chiesto “un reale sussulto civile per attaccare le cause profonde della crisi in Sahel e proteggere meglio la popolazione”.
In tutto questo, come detto, assistiamo anche alla fine di un ciclo più ampio. Difficile non accorgersi che tutti i grandi interventi militari occidentali degli ultimi vent’anni sono falliti, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia al Mali. “Sono finiti i tempi in cui uno stato si lasciava schiacciare sotto un tappeto di bombe, soprattutto americane ma anche un po’ francesi, prima di veder sorgere una forza di occupazione”, scrive il colonnello francese Michel Goya in Le temps des guépards, un libro dedicato alla lunga storia delle opex, le operazioni all’estero della Francia.
Questa constatazione spiega il contesto in cui la Francia e l’Europa tentano oggi a Bruxelles di cambiare il paradigma dei rapporti con i paesi del continente africano: un bilanciere complesso, tra problemi di sicurezza non risolti e un discorso più egalitario e rispettoso.
La sera del 16 febbraio il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato alla Station F, un conglomerato di startup parigine, in occasione di un incontro sull’Africa. Macron ha descritto con entusiasmo una nuova era, tutta da inventare, tra i due continenti. Poco dopo ha partecipato a un vertice ristretto per risolvere l’impasse della sicurezza nel Sahel. Uno scarto evidente con cui l’Africa e l’Europa dovranno convivere a lungo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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