La stentata vittoria di Lula rivela la forza dei populismi
Il ritorno di Luiz Inácio Lula Da Silva alla presidenza del Brasile è un nuovo capitolo della sua leggenda personale: ex operaio diventato presidente del più grande paese dell’America Latina, Lula è dovuto passare dal carcere prima di riuscire a vincere queste elezioni estremamente sofferte.
Eppure l’aspetto più sorprendente del voto brasiliano non è l’exploit di Lula, ma lo scarto minimo con il suo avversario, Jair Bolsonaro: 50,9 per cento dei voti per Lula, 49,1 per Bolsonaro. L’enorme numero di preferenze ottenute dal presidente uscente, e questo nonostante un mandato disastroso, alimenta diversi interrogativi.
Bolsonaro ha negato il covid, ha consentito la deforestazione dell’Amazzonia, non ha fatto nulla per impedire l’aumento della povertà e ha dato prova di un’etica personale sempre più degradata. Fino a qualche mese fa si pensava che con un simile bilancio non potesse nemmeno candidarsi. Oggi invece scopriamo che ha sfiorato la vittoria.
Ad alimentare i timori è questo carattere inossidabile del potere di Bolsonaro, rafforzato dalle fake news onnipresenti durante la campagna elettorale, dal sostegno prezioso degli evangelici e dalla fedeltà cieca dello zoccolo duro dei suoi seguaci. Bolsonaro condivide queste caratteristiche con altri due politici che dovranno misurarsi a breve con le urne: Benjamin Netanyahu e Donald Trump.
Negli Stati Uniti si ritrovano gli stessi ingredienti: polarizzazione, disinformazione massiccia, peso degli evangelici e personalità del leader
Tutti e tre i leader populisti hanno forgiato un rapporto quasi mistico con i loro elettori, e gli scandali che farebbero cadere chiunque altro non li sfiorano nemmeno.
Il 1 novembre gli elettori israeliani parteciperanno alle quinte elezioni legislative negli ultimi tre anni e mezzo. Ancora una volta al centro della contesa c’è un solo elemento: pro o contro “Bibi”, soprannome di Netanyahu. L’ex primo ministro è sotto processo per corruzione, frode e abuso di potere. Ma ai suoi elettori, animati da una fede incrollabile, questo non interessa, anche se Bibi è pronto a tutto pur di sfuggire alla giustizia, compresa un’alleanza con l’estrema destra la cui violenza fa impallidire quella dei “colleghi” europei. I detrattori di Netanyahu temono una deriva “illiberale” in caso di una sua vittoria. La società israeliana è spaccata in due.
Lo stesso scenario si presenta in Brasile (lo dimostra il risultato di stamattina) e negli Stati Uniti, dove tra otto giorni si terranno le elezioni di metà mandato tanto temute dal presidente Joe Biden.
Donald Trump, che non è candidato ma resta il padrone del Partito repubblicano, è un altro leader carismatico il cui potere sembra immutabile. Trump è alle prese con una serie infinita di problemi legali, eppure il 31 ottobre si è sentito in diritto di definire Joe Biden un “criminale” senza che nessuno avesse nulla da ridire.
Negli Stati Uniti si ritrovano gli stessi ingredienti presenti in Brasile: polarizzazione, disinformazione massiccia, peso degli evangelici e personalità del leader.
Il fatto che i tre leader populisti, i cui bilanci sono pessimi se non catastrofici (nel caso di Bolsonaro), continuino a rivelarsi inossidabili rappresenta una sfida per il funzionamento democratico.
Ai tempi dell’elezione di Trump, nel 2016, ironizzavamo sul concetto di “realtà alternativa”. Ora siamo costretti ad ammettere che quell’approccio non ha perso vigore. La vittoria di Lula dimostra che la realtà alternativa non è invincibile. Ma resta comunque una grave minaccia per la democrazia.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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