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Taiwan, le elezioni e l’arte di tenere a distanza il dragone cinese

Il candidato del Partito democratico progressista William Lai (al centro) a Taiwan, l’11 gennaio 2024. (Louise Delmotte, Ap/Lapresse)

L’unica questione che interessa il resto del mondo a proposito delle elezioni del 13 gennaio a Taiwan riguarda la possibilità dello scoppio di una guerra. Chiaramente è un tema rilevante, ma non è l’unica chiave di lettura del voto.

Prima di tutto bisogna considerare che i taiwanesi, come tutti coloro che hanno la possibilità di votare, hanno anche problemi quotidiani che condizionano le loro scelte, dal costo della vita a quello degli alloggi. Insomma, non c’è solo l’elefante cinese nella stanza (che in effetti occupa molto spazio).

Secondo i sondaggi, la stragrande maggioranza dei taiwanesi è favorevole al mantenimento dello status quo: né indipendenza dalla Cina né riunificazione. È la posizione sostenuta in modo diverso dai candidati alle presidenziali. William Lai, vicepresidente uscente, sogna in segreto l’indipendenza, ma sa bene che significherebbe una guerra con Pechino. Hou Yu-ih del Kuomintang (il partito del nazionalista di Chiang Kai-shek, che nel 1949 si rifugiò a Taiwan con il suo esercito, sconfitto dai soldati di Mao Zedong), vorrebbe un rapporto più disteso con la Cina senza arrivare a una riunificazione, che i taiwanesi non accetterebbero.

La Cina non fa paura agli elettori
Il 13 gennaio i taiwanesi votano per eleggere il presidente e rinnovare il parlamento. Ormai abituati alle minacce di Pechino, sulla loro scelta le pressioni cinesi peseranno meno dell’economia

La loro moderazione, o pragmatismo che dir si voglia, elimina la prima causa di una possibile guerra, ovvero la proclamazione dell’indipendenza da parte di Taipei, in un’isola che è indipendente di fatto ma non legalmente, e soprattutto non è riconosciuta da alcuni stati.

Questa certezza, però, non esclude la possibilità di un conflitto armato. Sarebbe troppo semplice. Esiste sempre l’eventualità che un incidente aereo o navale provochi un’escalation. Ma potrebbe anche essere una questione di opportunità. Per esempio gli Stati Uniti, che difendono Taiwan, potrebbero trovarsi in una situazione di tale confusione politica – com’è successo dopo le elezioni del 2020 – da alimentare in Pechino la tentazione di un’avventura militare.

Le elezioni del 13 gennaio creeranno inevitabilmente tensioni, soprattutto se a vincere sarà il favorito William Lai, candidato del Partito democratico progressista (Dpp). Con un’ingerenza grossolana e probabilmente poco efficace, in settimana Pechino ha fatto presente ai taiwanesi che farebbero meglio a non votare il Dpp.

La tensione potrebbe aumentare con l’annuncio della visita a Taipei, nei prossimi giorni, di una delegazione di ex leader statunitensi, democratici e repubblicani, inviati dalla Casa Bianca per dimostrare sostegno politico all’isola. Ma l’aggressività dei comunicati stampa non equivale alla guerra.

Resta il fatto che difficilmente la Cina rimarrà passiva se il suo candidato preferito sarà sconfitto. La vittoria del Dpp sarebbe infatti vissuta come una sconfitta da Pechino, forse addirittura come un’umiliazione per Xi Jinping, che nel suo messaggio per il nuovo anno ha ripetuto che la riunificazione con Taiwan è “inevitabile”.

Dunque possiamo attenderci reazioni forti e senza dubbio un invio di aerei e navi verso l’isola, nel disprezzo della sua sovranità. A Taiwan, d’altronde, ci sono abituati.

La vera questione riguarda il modo in cui Pechino, Taipei e Washington gestiranno il prevedibile aumento della tensione. Da questo punto di vista la recente riapertura del dialogo militare tra cinesi e statunitensi, conseguenza positiva dell’incontro tra Xi e Biden di novembre a San Francisco, è di buon auspicio, quanto meno a breve termine.

Taiwan ha imparato a vivere in acque agitate. Per questo motivo gli elettori pretendono dai loro leader prima di tutto una gestione ragionevole del rischio, a due passi dal dragone cinese.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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