Come tanti altri atti sconvolgenti della nostra giornata, anche questo è venuto alla ribalta attraverso i social network. Pochi giorni fa la modella pachistana Zara Abid ha postato sul suo account Instagram alcune suo foto scattate per il salone di bellezza Nabila. Le foto la ritraevano con una tonalità di pelle molto più scura della sua (almeno stando alle altre foto presenti sull’account). La modella sembra ostentare un’aria africana, con tanto di tonalità di pelle “accentuata”.

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L’uso di cosmetici blackface per scurire la pelle e operare così una indebita appropriazione culturale della tradizione africana può essere considerato un atto razzista. In Pakistan, un paese fatto di gente bruna, è stato tollerato.

Forse però non questa volta, visto che molti delle decine di migliaia di follower della modella su Instagram hanno contestato sia lei che il salone di bellezza per questa raffigurazione. Può essere ritenuta offensiva per chi ha origini africane, poiché il colore scuro della pelle è presentato come qualcosa che può essere scimmiottato e trasformato, per così dire, in una posa studiata.

Idolatria postcoloniale
Ed è stato uno sgarbo nei confronti delle tante donne di pelle scura del Pakistan, modelle comprese, che sarebbe stato possibile ritrarre con il loro vero colore della pelle. Il messaggio che arriva è che quella pelle scura è così terribile nella sua forma originale e reale che perfino la sua raffigurazione deve implicare una qualche forma di messa in scena.

Le nazioni postcoloniali sono fatte così. I pachistani che si immaginano bruni idolatrano la pelle chiara e in quanto popolo si ritengono più belli degli africani. Essere di qualche tono più chiari è inteso come essere di qualche tono più vicini ai padroni coloniali di un tempo, e quindi di diversi toni migliori di quelli che sono più scuri.

Questo genere di foto dice a ogni ragazza non bianca che l’unica nerezza accettabile è quella che può essere lavata via

Ecco assorbito il razzismo dei colonizzatori, secondo i quali tutte le razze più scure della loro erano inferiori (una convinzione che hanno ancora oggi nelle loro reincarnazioni neocoloniali).

Un razzismo che nel 2019 è ancora riprodotto in scatti in cui modelle, fotografi e datori di lavoro se ne infischiano di questa sordida storia di esclusione e degrado basata sul colore della pelle. Questo genere di foto dice a ogni ragazza non bianca che le guarda che l’unica nerezza accettabile è quella che può essere lavata via.

È davvero un peccato, proprio come i pachistani (e gli indiani) che hanno problemi ad accettare di non avere una qualche pura eredità ariana (e dunque bianca). La maggior parte, se non tutti, vantano una qualche discendenza dagli arabi conquistatori, qualunque cosa li colleghi a qualcosa di meglio che essere semplicemente asiatici meridionali, bruni, scuri o neri.

Farsi bianche
Le conseguenze sono state disastrose e hanno inculcato in milioni di donne che vivono nella regione l’idea di dover in qualche modo trasformare la loro realtà asiatico-meridionale, scura e color bronzo, nella fantasia di bianchezza così iconizzata dalla cultura. Per essere bella, una ragazza deve farsi bianca, come le viene detto dalla cultura e dalle convenzioni, da sua madre e da sua sorella.

Diventare bianchi in Pakistan richiede fatica e comporta molti rischi. Per anni i saloni di bellezza hanno offerto trattamenti che usano sostanze chimiche di ogni genere per sbiancare la pelle scura. Peggio ancora, esiste una grande varietà di creme velenose traboccanti di mercurio pronte a essere consumate da ragazze che sperano di ottenere una buona proposta di matrimonio. Le creme sono adoperate con entusiasmo per “aprire” la carnagione senza curarsi minimamente del veleno che penetra nella pelle o dei tumori, delle malattie e dell’avvelenamento che possono provocare se utilizzate in alte concentrazioni.

Il terrore che spinge all’uso di queste creme è che una ragazza scura vale quanto una ragazza morta. Meglio essere più chiare e sposate che restare scure, che nel crudele lessico razzista del paese significa anche brutte.

Pochi in Pakistan mettono in relazione i pregiudizi sul colore della pelle e due secoli di dominio coloniale

Qualche speranza giunge da un luogo piuttosto improbabile. All’inizio dell’anno Zartaj Gul, la ministra pachistana per il cambiamento climatico, ha dichiarato che le “creme per schiarire la pelle sono contrarie ai diritti umani delle donne”. La ministra ha convocato una conferenza stampa in cui ha annunciato che il suo ministero avrebbe imposto una stretta alle aziende che producono creme sbiancanti contenenti quantità pericolose di mercurio. Solo tre delle 57 aziende esaminate dal ministero sono risultate in regola con le linee guida sulla salute e la sicurezza.

Naturalmente ci vorrà molto più di questo per liberarsi dell’ossessione per la bianchezza. La tolleranza pachistana nei confronti del blackface, che ha fatto sì che una modella fosse a tal punto ignorante da fingere di essere “nera”, rivela come siano pochi i pachistani che mettono in relazione i pregiudizi della società riguardo il colore della pelle e la storia di inferiorità accumulata in due secoli di dominio coloniale. Ed è un’ignoranza che costa cara, anche perché impedisce alle donne di avere una sana immagine di se stesse che celebri la loro realtà piuttosto che una qualche versione imposta in cui la bianchezza assomma in sé ogni attrattiva.

Ideali importati
È giunto il momento per le donne e le ragazze pachistane di iniziare una loro campagna, un boicottaggio organizzato dei prodotti e delle aziende che usano solo modelle dalla pelle chiara per pubblicizzare i loro prodotti. Essendo loro a occuparsi in prevalenza della spesa, le donne possiedono un enorme potere in quanto consumatrici. Nei social network hanno uno strumento che gli consente di entrare in contatto le une con le altre. Assieme possono servirsene per guidare un boicottaggio collettivo dei canali televisivi, delle aziende e dei fornitori di servizi (come i saloni di bellezza) che promuovono trattamenti sbiancanti, decolorazioni e ogni altro metodo per far sembrare bianche le donne.

I pachistani non sono bianchi, sono bruni, o scuri. Questa è la nostra realtà e riguarda uomini e donne. Invece di cercare di sfuggirle, di disprezzarsi e sentirsi inferiori a causa sua, è ora che tutti la accettino. Bruno è bello e nero è bello. A non essere bello è il costante tentativo di trasformarci per adattarci a un qualche ideale importato e degradante di bellezza.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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