Nel 2019 i pachistani hanno fatto come in passato e sono andati a cercare lavoro all’estero: secondo i dati istituzionali, sono stati più di mezzo milione. Si tratta in realtà di un dato in flessione rispetto agli anni precedenti, poiché il numero nel 2015 e nel 2016 sfiorava il milione. Il principale paese importatore di manodopera dal Pakistan è stata l’Arabia Saudita, seguita dagli altri paesi del Golfo. I pachistani sono però andati anche in paesi più lontani, per esempio in Sudan, dove lo scorso anno sono emigrate più di 500 persone.

Nonostante la flessione, il numero evidenzia come quella pachistana stia diventando sempre più una società che esporta stabilmente manodopera. L’emigrazione per chi cerca un’occupazione dunque sembra un fenomeno stabile e probabilmente espanderà la sua quota sul totale del mercato del lavoro.

È una cosa buona, perché come dimostrato dai dibattiti più recenti, l’economia pachistana in generale e le riserve di valuta estera in particolare dipendono in misura consistente dalle rimesse inviate da chi guadagna all’estero e manda soldi alle famiglie rimaste a casa. E a proposito di famiglie, adesso che lo status di nazione esportatrice di manodopera del Pakistan è inconfutabile, è necessario dare importanza al modo in cui si modifica la demografia delle famiglie quando chi porta il pane a casa vive e guadagna all’estero.

Cambiamenti di ruolo
Secondo le statistiche del dipartimento per l’emigrazione e il lavoro all’estero le regioni del paese esportano soprattutto lavoratori di sesso maschile. Questo significa che tutto il paese è pieno di famiglie che hanno come capofamiglia le donne o altri uomini.

Come emerge da un rapporto recente pubblicato dal New York Times, il fenomeno costringe le donne a svolgere compiti altrimenti riservati agli uomini. In paesi come il Senegal e altri nell’Africa occidentale, anch’essi esportatori di manodopera, le donne hanno cominciato a dedicarsi alle mansioni tipicamente maschili, dall’allevamento alle riparazioni in casa. Moltissimi senegalesi sono emigrati in Italia (dopo essere sopravvissuti a un viaggio pericoloso) e sono troppo lontani per tornare a casa con regolarità. Questo sta innescando dei cambiamenti nei ruoli di genere perfino nelle aree più conservatrici del paese.

Mutano le dinamiche familiari e tribali, ma c’è poco sostegno per queste famiglie non tradizionali

Lo stesso sta accadendo in Pakistan. Non sono solo i lavoratori emigrati dalla regione centrale di Karachi (il distretto che esporta più manodopera nel paese) a lasciarsi alle spalle famiglie guidate da donne. Questo accade anche in aree come l’Upper Dir, che esporta all’estero un numero enorme di lavoratori non qualificati che lasciano in patria case abitate solo da anziani, donne e bambini. È innegabile che questi cambiamenti stanno rovesciando le dinamiche familiari e tribali in questa regione.

Eppure, c’è poco sostegno per queste famiglie non tradizionali all’interno del discorso culturale e, più in generale, della società. Spesso queste donne sono lasciate alla mercé dei parenti di sesso maschile rimasti a casa, prontissimi a sfruttare la situazione.

Negoziare la protezione
Il Pakistan ha sviluppato un quadro amministrativo in cui inserire i dati e supervisionare l’impiego dei pachistani che cercano lavoro all’estero. Il dipartimento per l’emigrazione e il lavoro all’estero ha un sistema di protezione in base al quale chi deve presentare una protesta può scrivere all’agenzia assegnata al suo distretto per chiedere dei risarcimenti. Al momento, gli agenti per l’impiego usano le licenze per reclutare manodopera solo dopo che sono state rese note le posizioni richieste. A quel punto possono reclutare persone da diverse regioni per poi portarle all’estero. Le agenzie che hanno posizioni da riempire sono elencate su un sito web.

Tutto questo va bene, ma la situazione dei lavoratori emigrati pachistani continua a essere difficile. In primo luogo, dato lo scarso potere negoziale del Pakistan rispetto ai principali paesi in cui lavorano i suoi cittadini, per esempio l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti, le lamentele e le denunce presentate dal Pakistan e portate all’attenzione dei governi stranieri non sempre ricevono l’attenzione che meriterebbero.

Naturalmente i governi (e i datori di lavoro) riceventi sono ben consapevoli di questa situazione e prestano poca attenzione alle proteste dei lavoratori. Dopo tutto, se non arrivassero dal Pakistan questi lavoratori non qualificati potrebbero essere importati dal Nepal, dal Bangladesh, dall’India o da molti altri posti simili. Gli agenti per l’impiego pachistani possono smettere di reclutare manodopera per datori di lavoro inadempienti, ma non possono prendere in carico i problemi di chi ha già un lavoro e viene rispedito a casa senza essere pagato e con visti e passaporti scaduti.

Su più vasta scala, il Pakistan deve discutere delle questioni legate alla mobilità dei lavoratori a un livello internazionale. Questo potrebbe aiutare un mondo ubriaco di nazionalismo e propenso a definire la cittadinanza in modi sempre più restrittivi.

Il Pakistan dovrebbe definire la cittadinanza in un modo più ampio, consentendo ai membri della diaspora di avere rapporti con il paese che amano e di potervisi recare liberamente. Sono già in piedi programmi educativi, viaggi organizzati, assistenza umanitaria, ma c’è spazio per fare molto di più. Le persone che lasciano il loro paese per lavorare all’estero sono molte e concetti come quello di famiglia, appartenenza, cittadinanza e festa sono già di fatto cambiati in Pakistan. Resta solo da prenderne atto.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul quotidiano pachistano Dawn.

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