Qualche mese fa il Guardian ha pubblicato la storia di Hassan, trent’anni, uno dei 99 pachistani rimasti bloccati a Dubai dall’inizio della pandemia in un campo di lavoro praticamente abbandonato alle periferie della città. Non hanno soldi né un modo per tornare a casa. Di recente hanno cominciato a chiedere l’elemosina per mangiare, perché stanno morendo di fame.
Al momento dipendono da enti benefici che cercano di aiutarli. L’impresa di costruzioni per cui lavoravano ha tagliato ogni rapporto con loro, perciò le probabilità che ricevano gli arretrati sono praticamente nulle.
Avevo letto la storia di Hassan quand’era uscita a settembre e mi ha colpito il fatto che nemmeno in autunno queste persone siano riuscite a rientrare in Pakistan, a causa della pandemia, sicuramente, ma soprattutto per i metodi usati dagli intermediari che fanno arrivare i giovani pachistani negli Emirati Arabi Uniti. I commenti a un mio articolo sul fatto che da fine novembre gli Emirati non rilasciano il visto turistico ai cittadini di 11 paesi, tra cui il Pakistan, hanno gettato luce su una realtà di sfruttamento e disperazione amplificata dalla pandemia. Uno dei commenti era di un ragazzo dell’area dell’Upper Dir, nella regione del Khyber Pakhtunkhwa.
Un sacrifico familiare
Laureato alla facoltà di agraria dell’università di Peshawar, il ragazzo ha fatto di tutto per cercare lavoro in Pakistan. Alla fine, come molti altri nella sua situazione, si è arreso e ha deciso di trasferirsi a Dubai. A quel punto è entrato in contatto con un agente di nome Ali che raccoglieva ragazzi da tutto il Pakistan, aiutandoli a procurarsi un visto per Dubai con la promessa di un impiego ben retribuito. Per poter pagare l’agente e il biglietto aereo, le donne della sua famiglia avevano venduto i loro gioielli.
Chi aveva ricevuto un’offerta
di lavoro nell’emirato aveva già dato le dimissioni in vista della partenza
A Dubai, Ali e altri agenti sono andati a prenderlo all’aeroporto e hanno portato lui e gli altri ragazzi appena arrivati in una sistemazione temporanea. Nel giro di poco tempo l’agenzia di Ali l’ha mandato in un campo di lavoro. Anche se gli era stato promesso un buon impiego, adatto a un laureato, si è trovato a dover svolgere lavori manuali per dodici ore al giorno, tutti i giorni. Passaporto e documenti sono ancora nelle mani dell’agente. Non essendo stato pagato, non ha soldi per tornare a casa. E comunque tornare vorrebbe dire disonorare il sacrificio della famiglia. Nella lettera il ragazzo scriveva di aver pensato al suicidio per tirarsi fuori da quella vita infernale.
Senza risposte
Anche i giovani medici pronti a trasferirsi negli Emirati sono in difficoltà. Molti di quelli che avevano fatto domanda si aspettavano di ricevere a marzo l’autorizzazione a praticare la professione a Dubai. Chi aveva ricevuto un’offerta di lavoro dall’emirato aveva già dato le dimissioni in vista della partenza. Chi era in attesa di ricevere il permesso di lavoro aveva versato le somme richieste, superato gli esami per l’autorizzazione, comprato biglietti aerei e speso parecchi soldi per poter soddisfare tutti i requisiti e ottenere l’autorizzazione. Poi il covid-19 ha mandato tutto all’aria.
Chi si trovava nel mezzo di questo percorso è rimasto senza risposte: con il passare dei mesi le domande sono scadute, bisognava pagare di nuovo per ripresentarle, rifare gli esami e via dicendo, e questo solo per ottenere l’idoneità a praticare la professione a Dubai. Alcuni hanno provato a riavviare l’iter a settembre, quando sono state abolite le restrizioni sui viaggi, ma la situazione è di nuovo cambiata quando gli Emirati Arabi Uniti hanno sospeso l’approvazione dei visti per i cittadini pachistani.
Questa è la storia di un emirato una volta ricco e redditizio e che oggi è solo un parco giochi nel deserto per ex dittatori, vagabondi e principi
In questo momento i giovani pachistani che si trovano a Dubai o che stanno per partire devono affrontare enormi difficoltà. Le loro storie sono un monito per chi deve decidere se trasferirsi o no nell’emirato. La pandemia ha messo ancora una volta in luce la crudeltà delle agenzie di lavoro interinali che reclutano giovani da usare come carburante per alimentare i pacchiani grattacieli e gli insaziabili eccessi di Dubai. Le spietate agenzie che concedono i permessi non hanno fatto eccezione per chi aveva già pagato la domanda e sono il segno di una mentalità disumana che rifiuta di riconoscere anche i bisogni di chi deve essere impiegato negli ospedali locali.
Questa è la storia di un emirato una volta ricco e redditizio e che oggi è solo un parco giochi nel deserto per ex dittatori di tutto il mondo, politici vagabondi e la famiglia reale. Con il crollo del prezzo del petrolio e la pandemia, Dubai si è rivelata un luogo in disfacimento. La sua incapacità di concedere la cittadinanza perfino a chi lavora da decenni nel paese è una delle ragioni per cui migliaia di stranieri hanno scelto di andarsene dopo la pandemia.
Molti lamentano la totale assenza di servizi sociali per la consistente fascia di popolazione senza cittadinanza. È perciò probabile che a Dubai rimarranno le persone straniere più disperate, una categoria in cui rientrano fin troppi pachistani. Se le loro vite e il loro sostentamento sono importanti per il paese e per il governo che in teoria dovrebbe essere al loro servizio, è necessario intervenire per aiutare i ragazzi e le ragazze che soffrono per la sconsiderata negligenza di sistema burocratico basato sullo sfruttamento.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul quotidiano pachistano Dawn.
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