E se sostituissimo alla guerra dei numeri la guerra delle idee? Le ultime statistiche sul lavoro, pubblicate dall’Istat proprio alla vigilia del primo maggio, fanno un regalo per la festa dei lavoratori; portando notizie non confortanti, ma utili a capire cosa è successo, e cosa si potrebbe far succedere.
In primo luogo, sgombriamo il campo dalla contrapposizione tra i numeri di Giuliano Poletti e quelli dell’Istat. Il ministro del lavoro, che da quando è partito il Jobs act ha indossato le inedite vesti del comunicatore di dati in tempo reale, ha detto che nel marzo del 2015, rispetto allo stesso mese dell’anno prima, ci sono stati 92.000 assunzioni in più, 54.000 delle quali a tempo indeterminato (con i nuovi contratti a tutele crescenti). I dati pubblicati ieri dall’Istat dicono invece che, da marzo a marzo, abbiamo 70.000 occupati in meno, e 138.000 disoccupati in più.
Non si tratta di decidere chi ha ragione e chi ha torto, ma di chiarire di cosa stiamo parlando. Il ministro del lavoro ha dato le cifre dei nuovi contratti di lavoro dipendente comunicati ai suoi uffici da tutti coloro che hanno l’obbligo di farlo, ossia le imprese del settore privato. L’Istat dà i risultati di un’indagine periodica riferita a tutto il mondo del lavoro. Poletti ha dato un dettaglio della foto, l’Istat la panoramica.
Quest’ultima ci dice che, in un anno, l’occupazione è scesa. Non solo: ci dice anche – cosa molto importante – che più gente cerca lavoro, dunque oltre a quelli che l’hanno perso si sono aggiunti sul mercato molti altri (soprattutto donne) che cercano attivamente un’occupazione, e dunque sono usciti dalla categoria statistica degli “inattivi” per entrare in quella dei “disoccupati”.
Il dettaglio anticipatamente fornito da Poletti invece ci dice un’altra cosa, una volta composto nel puzzle complessivo: che sono cambiate le forme e non la quantità del lavoro; ossia, persone che prima lavoravano con contratti di collaborazione o da esterni, hanno avuto un contratto. Ottima notizia, ma non è un aumento di occupazione. Al massimo si può parlare, come fa oggi Il Sole 24 Ore, di “lenta redistribuzione del lavoro”.
Ma era questo che si voleva? Era questo l’obiettivo della spesa pubblica più ingente che sia stata fatta negli ultimi anni, ossia lo sgravio contributivo triennale per le imprese che assumono nel 2015? È questo il motore della ripresa e bisogna solo avere la pazienza di aspettarla? “Si può portare il cavallo alla fontana, ma non lo si può convincere a bere”, scrive Pietro Garibaldi sulla Voce citando John Maynard Keynes, per spiegare cos’è successo. Le imprese hanno avuto la decontribuzione, poi il contratto a tutele crescenti: ma non hanno bevuto. Bisogna aver pazienza e insistere sulle riforme, prima o poi il cavallo-economia berrà, è la conclusione di Garibaldi e di molti altri. Sicuri?
Quando citava quel vecchio proverbio inglese del cavallo, in realtà Keynes voleva arrivare a un’altra conclusione, ossia che se la crisi viene dalla domanda, non si risolve intervenendo sull’offerta. Se le imprese non vedono sbocchi per i loro prodotti, non assumeranno di più, al massimo potranno redistribuire il lavoro nelle forme economicamente più convenienti. Se non investono più (dopo quattro anni di crollo, solo nell’ultimo trimestre del 2014 c’è stata una ripresa da prefisso telefonico degli investimenti, 0,2 per cento), come si può sperare che aumentino l’occupazione solo per prendersi un bonus di contributi?
Il crollo degli investimenti non interessa solo l’Italia, e nel suo recente Outlook il Fondo monetario internazionale imbocca una strada keynesiana per analizzarlo, suggerendo di guardare al complesso delle aspettative delle imprese, e dunque – spiega il Nobel Krugman – al fatto che la riduzione della spesa pubblica può peggiorare queste aspettative, dunque far ammalare il cavallo che dovrebbe bere. Trionfa così “il paradosso della parsimonia”, ossia il risanamento e il risparmio che ammazzano il paziente.
Si possono avere idee diverse, e non filarsi per niente il Fondo monetario quando dice cose diverse dalle solite “lacrime e sangue”. Però è difficile smentire i numeri, che ci dicono che non basta cambiare il diritto (e i diritti) per avere più lavoro. Né è elegante, per un ministro del lavoro, commentare solo quelli buoni. Sarebbe meglio leggerli tutti, e puntare su altri cavalli invece di aspettare che quello recalcitrante, chissà perché, si decida a bere.
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