Cosa significa l’improvviso interesse di Matteo Renzi per il sindacato, che a suo tempo aveva definito un ferro vecchio superato, un residuo del secolo scorso da abbandonare nel dimenticatoio della storia e con cui era inutile dialogare? Che vuol dire l’auspicio che si arrivi (nientemeno) a un “sindacato unico”, termine sfortunato che ha scatenato tantissime e scontate reazioni negative?
Innanzitutto sgombriamo il campo da ogni equivoco: Renzi non è stato affatto folgorato sulla via di Damasco: come prima continua a pensare tutto il male possibile del sindacato, che ritiene un fattore nefasto per l’Italia e un elemento che gioca un ruolo di frenatore per sé e per il suo governo, visto che (disse così il 20 novembre 2014) “passano il tempo a inventarsi ragioni per fare gli scioperi”. Quindi certamente i sindacati non vanno bene – e sono da contenere e limitare – quando vogliono interferire su materie di cui si occupa il governo, così come hanno fatto a lungo nella stagione della concertazione, dal 1992 al 2001: dalle politiche economiche e fiscali alle regole del mercato del lavoro. A maggior ragione quando il sindacato pretende (o sembra pretendere) di condizionare in qualche modo il dibattito politico o di partito.
Al contrario, li considera utili quando si occupano di negoziati a livello aziendale o di gruppo: per salvare un’azienda, uno stabilimento, o per favorire investimenti o localizzazioni. In questo caso – vedi alla ThyssenKrupp, alla ex Lucchini, o alla Fiat Chrysler automobiles (Fca) – il sindacato per Renzi va benissimo. Perché quando si occupa di singole vertenze o di singoli gruppi il sindacato può agevolare le soluzioni, e consente al governo di avere un ruolo di mediazione. Perché in questo caso il conflitto – scioperi, proteste, manifestazioni, momenti di tensione – comunque è localizzato e non generalizzato.
Nella tradizione e nella storia italiana in realtà il sindacalismo ha sempre avuto un peso decisamente più politico (si potrebbe dire perfino troppo politico); e da sempre il confronto tra imprese e organizzazioni sindacali si è realizzato soprattutto nel contratto nazionale di categoria piuttosto che in quello aziendale (il che non è stato sempre necessariamente un bene, a dire il vero). Negli ultimi anni però il sindacato non è riuscito mai a riformarsi veramente, apparendo troppo lontano dalle persone e troppo burocratico. Stesso fenomeno è stato vissuto da Confindustria. La crisi e la disoccupazione hanno indebolito le organizzazioni di rappresentanza; il colpo di grazia è stata la famosa lettera della Bce al governo italiano dell’agosto del 2011. La lettera chiedeva: 1) la riforma del sistema contrattuale, “permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”; 2) “una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”.
Queste cose, lo sappiamo, sono state fatte. Ma non abbastanza. Perché il quadro sia completo, al mosaico mancano tre tasselli importanti: una legge sulla rappresentanza sindacale che semplifichi il quadro ed elimini qualcuna delle 17 (o a volte 22, a seconda dei discorsi) “sigle sindacali” che fanno venire l’orticaria al premier. Una legge che regolamenti lo sciopero, a cominciare da quello nei pubblici servizi. Ulteriori interventi per ridurre l’importanza dei contratti nazionali, e per aumentare quella dei contratti aziendali, come pure richiesto pochi giorni fa dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Secondo cui si licenzia di meno quando il salario è deciso a livello aziendale (naturalmente, perché si può ridurlo, ad esempio, per evitare gli esuberi).
Non sarà facile costruire questa legge sulla rappresentanza sindacale, che dovrebbe garantire il diritto di negoziare (ma anche di scioperare) soltanto ad alcune organizzazioni sindacali. Quali saranno i criteri adottati? Uno potrebbe essere quello di “validare” solo i sindacati che superano una soglia minima percentuale di iscritti in azienda sul totale dei lavoratori. L’accordo (per adesso rimasto sulla carta) tra sindacati e Confindustria fissa la soglia al 5 per cento, e dice che i contratti si applicano se il 51 per cento dei lavoratori iscritti rappresentati sono d’accordo.
Non sarà semplice anche intervenire sul diritto di sciopero, considerando quando stabilito dalla costituzione. Nei giorni scorsi il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio ha proposto di adottare nei servizi pubblici il modello del referendum preventivo: i lavoratori prima devono votare, e lo sciopero è ammesso solo se vota sì a scrutinio segreto il 50 per cento più uno degli aventi diritto. In alternativa, gli scioperi potrebbero essere autorizzati solo se li vota il 50 per cento più uno dei rappresentanti sindacali. Quanto al maggior potere per i contratti aziendali, se ne parlerà già nei prossimi giorni: il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi nel suo discorso all’imminente assemblea annuale proporrà ai sindacati proprio di consentire alle aziende se applicare (in alternativa) il contratto nazionale o quello aziendale.
Per adesso, per Renzi l’esempio da seguire più che mai è quello di Fca, l’ex Fiat. Nelle aziende italiane del gruppo guidato da Sergio Marchionne il contratto nazionale non è più applicato: vige solo un contratto aziendale di gruppo, che è stato negoziato e firmato da tutti i sindacati con l’eccezione della Fiom-Cgil, che ne ha duramente criticato i contenuti. Il sindacato di Maurizio Landini per il momento non solo non ha potuto partecipare al voto e far eleggere propri rappresentanti sindacali, ma non è coinvolto nelle trattative. Discretamente – ma con determinazione – l’azienda sta spingendo perché le molte sigle sindacali “firmatarie” si aggreghino gradualmente in una sola organizzazione. E a proposito di sciopero, il contratto Fca consegna il diritto di proclamare le astensioni dal lavoro soltanto ai rappresentanti sindacali eletti dalle organizzazioni firmatarie del contratto stesso. Ovvero, ai “sindacati del sì”.
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