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Alexis Tsipras si dimetterà se dovesse vincere il sì al referendum

Il parlamento greco ha convocato un referendum sul piano di salvataggio proposto dai creditori internazionali per domenica 5 luglio. Entro la mezzanotte del 30 giugno Atene avrebbe dovuto ripagare il prestito da 1,6 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale

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La crisi greca spinge l’Europa in acque inesplorate

È molto probabile che nel futuro lo ricorderemo, questo sabato 27 giugno 2015. Non sappiamo ancora cosa accadrà nelle prossime 48 ore: se la Grecia, come pare probabile, sarà costretta nel giro di una giornata a varare misure per controllare i movimenti di capitale; se lunedì le banche greche potranno riaprire regolarmente i battenti; se la giornata di domani sarà un lunedì nero per i mercati finanziari, con quotazioni di borsa in caduta libera e un’impennata verso l’alto degli spread per i titoli dei paesi più indebitati, Italia compresa.

Non sappiamo nemmeno se al referendum proclamato per domenica 5 luglio dal premier greco Alexis Tsipras - una scelta che ha provocato l’immediata rottura dei negoziati su un possibile proseguimento del programma di sostegno finanziario alla Grecia – vinceranno i sì o i no all’accettazione delle richieste formulate venerdì scorso dai creditori e dalle “istituzioni”. La situazione è tanto confusa che una ipotetica vittoria dei sì – che ovviamente rappresenterebbe una seria sconfitta per Syriza, il partito di sinistra radicale al governo – non necessariamente comporterebbe una ripresa del negoziato: a sentire il presidente dell’eurogruppo Jeroun Djisselbloem quella proposta non è più, ormai, sul tavolo.

Signore e signori, benvenuti in quelle che qualche giorno fa il numero uno della Banca centrale europea Mario Draghi ha definito le uncharted waters, le acque inesplorate in cui da sabato 27 giugno 2015 tutti noi europei ci troviamo a navigare. Per quanto possa sembrare incredibile – e oggettivamente così è, per ogni osservatore dotato di buon senso – i leader politici, i ministri finanziari, i potenti e misteriosi burocrati che dirigono e animano la Commissione europea, la Banca centrale europea, e il Fondo monetario internazionale, sono riusciti a trasformare un problema che riguardava un paese piccolo e poco importante come la Grecia nella palla di neve che rischia di mettere in moto la valanga che potrebbe spazzar via la moneta unica europea. Stiamo parlando di un paese che pesa in tutto il due per cento del prodotto interno lordo dell’Unione europea e l’un per cento della sua produzione manifatturiera.

Tra qualche giorno potremo ragionare con maggiore calma e qualche elemento in più su quanto accaduto. Anche sul ruolo dell’Italia, che si è attestata su una linea super-ortodossa di austerità, e che ora potrebbe essere messa nel mirino della speculazione. Per il momento è ancora possibile – difficile, ma possibile – che la crisi venga contenuta; che Grecia e creditori possano trovare un’intesa basata su una qualche neutralizzazione della montagna di indebitamento che i prestiti e la recessione scatenata dalle politiche di austerità ha posto sulle spalle di neanche dodici milioni di greci. Potrebbe succedere quanto auspicato apertamente dal ministro delle finanze olandese Djisselbloem, che sarebbe un esponente del Partito del lavoro aderente alla “Internazionale socialista”, ma che ha invitato con nonchalance il parlamento ellenico, la voulì, a cambiare maggioranza politica e governo e a cancellare il progettato referendum. Potrebbe persino diventare realtà quanto adombrato dal ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis: la Grecia potrebbe essere cioè costretta a dichiarare il default, impossibilitata a rimborsare il prestito al Fondo monetario internazionale e di fatto tutti i 320 miliardi di euro che deve. E nonostante questo potrebbe restare tranquillamente nell’area dell’euro, perché come noto “non esistono regole né procedure” per far uscire un paese dall’eurozona.

Per adesso è ancora il momento dei proclami e delle facce feroci. In Grecia la propaganda per il no rievoca il famoso Όχι (ochi, no) con cui il dittatore Metaxas rispose all’ultimatum di Mussolini nel 1940. Il documento dell’eurogruppo (senza la Grecia), afferma invece stentoreo che non ci sono pericoli per l’eurozona, che ora “è in una posizione molto più forte del passato”. Speriamo solo che le conseguenze di questo folle 27 giugno – che saranno indubbiamente gravi, se non altro per chi ha creduto nel sogno europeo di Jacques Delors – possano essere in qualche modo circoscritte e limitate. Che una volta placata la tempesta, questi “mari inesplorati” non si rivelino anche pieni di scogli aguzzi e di squali feroci.

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