L’11 gennaio centinaia di migliaia di persone, inclusi i leader di molti paesi, sono scese in piazza a Parigi per ricordare le vittime degli ultimi attentati e per sfidare i terroristi. Molti gridavano Je suis Charlie, Je suis Ahmed (il poliziotto musulmano ucciso nell’attacco) e Je suis juif (io sono ebreo).
Queste dichiarazioni erano una manifestazione di solidarietà verso le vittime e i sopravvissuti. Attraverso la forza del linguaggio, permettevano di mettersi nei panni di altri. Abbiamo già visto questo genere di reazione davanti alla tragedia: io sono Troy Davis, io sono Mike Brown, io sono Eric Garner, io sono Renisha McBride.
Ma la verità è che noi non siamo nessuna di queste persone. Possiamo solidarizzare con le vittime, i sopravvissuti e i loro cari, possiamo provare empatia per la fragilità umana e cercare di non farci dominare dal terrore, ma perché questa urgenza retorica di sostituirci alle vittime? Che aiuto gli diamo? Anch’io soffro da quando ho sentito la notizia di Parigi, ma je ne suis pas Charlie et je ne suis pas Ahmed et je ne suis pas juif.
Ci sono momenti in cui il silenzio equivale all’assenso, ma davvero la perdita di una vita innesca questo meccanismo? È ragionevole pensare che se je ne suis pas Charlie allora sostengo tacitamente il terrorismo?
Io credo nella libertà di espressione senza eccezioni anche se, come ho già scritto, mi piacerebbe che più persone capissero che la libertà di espressione non è la libertà dalle conseguenze. Trovo di cattivo gusto una parte del lavoro di Charlie Hebdo, perché nelle sue vignette abbonda l’intolleranza di ogni genere. Ma la mia disapprovazione non può certo modificare le scelte della rivista. I vignettisti di Charlie Hebdo – ma anche gli artisti e gli scrittori di tutto il mondo – dovrebbero avere la possibilità di esprimersi e sfidare l’autorità senza essere ammazzati. L’omicidio non è mai una conseguenza accettabile.
Tuttavia è un esercizio di libertà anche criticare il modo in cui la satira come quella di Charlie Hebdo caratterizza qualcosa che per noi è caro, come la nostra fede, la nostra persona, il nostro genere, la nostra sessualità, la nostra razza o la nostra etnia.
Gli appelli alla solidarietà possono degenerare facilmente nel pensiero di gruppo, che non lascia spazio alle sfumature. Questo processo crea una spaccatura netta tra bianco e nero – sei con noi o contro di noi – anziché permettere alla gente di soffrire ed essere arrabbiata comprendendo allo stesso tempo la complessità della situazione.
È deprimente osservare gli inviti rivolti alla comunità musulmana affinché condanni il terrorismo. È deprimente leggere storie di “musulmani buoni”, come se il buon musulmano fosse un’eccezione alla regola di un popolo intero.
Continueremo a leggere discussioni sulla satira, sulla libertà di espressione e sui suoi limiti, e speculazioni su come evitare tragedie simili, perché speculare è sempre più facile che accettare l’impossibilità di fermare il terrorismo. Non possiamo certo convincere gli estremisti con il pensiero razionale o con le nostre idee su cosa è giusto e cosa è sbagliato.
La vita va avanti veloce, ma a volte le considerazioni non tengono il passo. Eppure continuiamo a pretendere una risposta immediata, un consenso immediato, universale. Un istantaneo “ci sono anch’io”, come se le persone non avessero il diritto a fermarsi e riflettere. Non vogliamo complicare il dolore e la rabbia, perché è più semplice provare queste emozioni nella loro forma più pura.
Più divento vecchia (e saggia, spero) e più sento l’esigenza di fermarmi. Voglio avere il tempo di pensare a come mi sento e al perché mi sento in quel modo. Non voglio fingere di essere esperta di cose di cui non so nulla per il solo scopo di offrire a qualcun altro la mia reazione immediata a suo uso e consumo.
La richiesta di una risposta attraverso i mezzi di cui disponiamo (soprattutto i social network) nasce in parte dal fatto che ci sentiamo così impotenti nella vita di tutti i giorni. Siamo persone con un lavoro e una famiglia, abbiamo le nostre preoccupazioni quotidiane. È facile sentirsi impotenti davanti al terrorismo di Parigi, alle centinaia di ragazze rapite in Nigeria, all’attentato contro la sede di un’associazione per i diritti degli afroamericani in Colorado o all’omicidio di un nero disarmato da parte di un agente di polizia.
Grazie ai social network possiamo sentirci meno soli, meno impotenti. Possiamo compiere questi gesti di solidarietà. Je suis Charlie. Possiamo cambiare l’avatar. Possiamo condividere la nostra rabbia e la nostra paura senza dover ammettere che non possiamo fare molto di più.
Eppure continuiamo a sentirci impotenti e inadeguati. Quando vediamo che qualcuno non partecipa alle nostre espressioni di solidarietà – che non mostra la consapevolezza della propria impotenza – vediamo qualcosa che forse possiamo cambiare. È per questo che pretendiamo partecipazione.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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