Scrivo diverse ore dopo i brutali attacchi che hanno lasciato quasi 130 morti nelle strade di Parigi, e ho ancora l’impressione che sia indelicato scriverne. Mentre buona parte del mondo vacilla, c’è qualcosa di profondamente disumano nel pretendere dagli altri che adesso sia il momento di stare a sentire la tua acuta opinione.
Se fare poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, lo è anche scrivere articoli di riflessione dopo Parigi. Non politicizzare, non usare gli eccidi di massa per imporsi con la retorica contro i nemici, non fare i sostenuti con frasi come “te l’avevo detto”, non giocare con il numero dei corpi, non farne una questione personale, non farne una questione politica. Può sembrare strano, perché la morte è sempre una faccenda politica, e non c’è nulla di più politico di un attacco terroristico. Questi fatti sono avvenuti per motivi politici, e hanno conseguenze politiche. Avere un’opinione è bene in tempi di pace, ma è assolutamente essenziale in tempi di crisi.
Eppure. Viene la nausea a leggere chi critica la decisione senza precedenti della Francia di chiudere le frontiere, perché se lo avesse fatto prima si sarebbe potuto evitare tutto questo. O chi blatera sulla minaccia globale dell’islam e gli stranieri che vivono in mezzo a noi. O chi dichiara compiaciuto che le leggi sul controllo delle armi hanno lasciato indifesa la popolazione.
Non è una tendenza solo della destra: anche tante persone che si dichiarano di sinistra usano gli attentati come un palco da cui impartire le loro lezioni di morale. E se invece gli assalitori fossero stati dei bianchi, non staremmo parlando tutti di sanità mentale? E non si sa che anche i non musulmani commettono atrocità? Perché occuparsi proprio di questo, anziché di tutte le altre tragedie in corso nel resto del mondo? Non capisci che tutti questi cadaveri servono soltanto a dimostrare che avevo ragione su tutto fin dall’inizio?
Di solito l’obbligo di non avere un’opinione riguarda solo una parte minima della popolazione, ma negli ultimi anni siamo stati tutti coinvolti. Gran parte di questa attività si svolge online, e ho l’impressione che sia assolutamente sbagliato lanciarsi in ammirevoli pronostici che riguardano centinaia di tragedie individuali sulle stesse piattaforme e nelle stesse forme che usiamo per dire ciò che pensiamo degli spettacoli televisivi e delle partite di calcio.
Molto di tutto questo ha a che fare con le esigenze del formato: vieni incoraggiato senza tregua a scrivere il tuo commento e unirti alla conversazione, a riempire con le parole degli spazi bianchi, perché ora quello che pensi su un qualsiasi argomento è terribilmente importante e, prima di accorgertene, nella corsa affannosa per scrivere il tuo commento e unirti alla conversazione, calpesti i cadaveri. Scarabocchiamo i nostri pensieri con il sangue. Esprimere qualcosa di diverso dal dolore è assurdo.
La battaglia comune
Ma guardate quello che si dice in giro. La notte del 13 novembre, davanti alla sala da concerti Bataclan, dove sono morte decine di persone, il presidente francese François Hollande ha dichiarato: “La nostra lotta sarà senza pietà”. Avremo altra guerra, altre morti, altre tragedie.
Le tv invitano esperti per ribadire che è tutta colpa dei migranti e degli stranieri, come se i profughi portassero con sé la violenza da cui sono scappati. Altre repressioni, altre crudeltà, altri pogrom. Come sappiamo, gli attacchi terroristici puntano a mettere le persone le une contro le altre e a spingere lo stato a diventare più violento. E puntualmente le persone vengono messe le une contro le altre e lo stato annuncia la propria determinazione a compiere atti di violenza.
Già questa è una politicizzazione della tragedia, e un’altra è dire chiaramente che si è contrari: anche questo è inaccettabile?
C’è la politicizzazione che si butta sulla morte per scopi politici limitati, ma c’è anche quella che rifiuta ogni copione preconfezionato
Il giorno prima degli attacchi a Parigi, due attentatori suicidi si sono fatti esplodere a Bourj el-Barajneh, un sobborgo a maggioranza sciita nella periferia meridionale di Beirut, uccidendo 43 innocenti che si facevano i fatti propri. Le agenzie di stampa come la Reuters hanno riferito di un attacco contro “una roccaforte di Hezbollah”.
L’umanità delle vittime è scomparsa, i morti sono stati brutalmente ridotti a rappresentare un partito che magari neanche appoggiavano: non erano persone, erano Hezbollah, come se l’obiettivo dell’attacco fosse stata una fortezza, anziché un quartiere pieno di famiglie. Tante persone hanno protestato: anche questo è inaccettabile?
Quando è impartito con onestà, l’ordine di non politicizzare vuol dire non trasformare la morte di qualcuno in qualcos’altro: non riguarda quella questione che t’interessa tanto, non riguarda te. Questo è un tipo di politica. Ma ce n’è un altro. Anche ribadire l’umanità delle vittime è un atto politico, e quando la tragedia viene intrecciata al conflitto tra civiltà o viene spacciata come scusa per vittimizzare quelli che sono già vittime, è un atto politico estremamente necessario.
C’è la politicizzazione che si butta sulla morte per scopi politici limitati, ma c’è anche quella che rifiuta ogni copione preconfezionato, che non sia la richiesta di liberazione. Ribadisce la natura politica della tragedia, non per fargli assumere questa o quella piega narrativa, e nemmeno per dare una patina di destra o di sinistra alle immagini del massacro, ma perché la politica è un modo per venirne fuori.
L’atrocità impone solidarietà. Comprensione assoluta per le vittime, per tutte le vittime. Dire chiaramente di avere un’opinione, non il ghigno saccente di qualcuno che aveva ragione da sempre, ma una solidarietà totale di fronte alla devastazione. Lottare contro quelli che attaccano i caffè e i concerti, quelli che bombardano le città con caccia a reazione e con il proprio corpo, quelli che abbandonano i migranti al freddo lasciandoli fuori delle proprie frontiere, e quelli che li hanno costretti ad andarsene. Combattere: la battaglia comune a tutti quelli che soffrono, contro tutte le sofferenze.
(Traduzione di Alessandro de Lachenal)
Questo articolo è uscito su Jacobin il 14 novembre 2015. Clicca qui per leggere la versione originale.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it