Nel 2019 sono state le attiviste del movimento Non una di meno, nel 2020 i ragazzi dei collettivi studenteschi: un anno una colata di vernice rosa (gli donava), l’anno dopo rossa. Non sembra amatissimo, l’Indro Montanelli in bronzo lucido e marmo nero che accoglie chi da piazza Cavour entra al parco di Porta Venezia (un tempo Giardini pubblici, ora Giardini Montanelli). Dunque non è solo in relazione agli avvenimenti di questi giorni in tutto il mondo, giorni in cui si tirano giù le statue di razzisti e schiavisti sull’onda delle proteste nate dall’uccisione di George Floyd e conseguente rivolta, che Montanelli viene verniciato a spruzzo: chi ha parlato di emulazione e addirittura di moda si sbaglia, a meno che non si voglia ammettere che la “moda” sia partita da qui.
Niente 8 marzo, quest’anno, causa covid-19, ma nei cartelli delle donne posti accanto alla statua rosa e bronzo, l’anno scorso, c’era già tutto: “Montanelli colonialista fascista e stupratore”. Quanto alla targa con dedica all’ingresso, finiva oscurata da un’altra intitolazione: “Giardini Destà dodicenne fatta schiava da I. Montanelli in Etiopia nel 1936”. O ancora: “Giardini transfemministi Destà”. Destà, la vittima. La sposa bambina acquistata con un contratto di compravendita dall’ufficiale Montanelli.
A voler ripercorrere l’escalation della verniciatura montanelliana, si cade in un gorgo melmoso. A una gentile richiesta di rimuovere la statua di Montanelli da parte di un’associazione milanese (i Sentinelli), il sindaco Sala dice no. Si accalcano commentatori sui mezzi di informazione mainstream e parte e cresce il coro allarmato: le statue non si toccano, il passato va contestualizzato. Al netto di quelli che “allora abbattiamo il Colosseo perché i romani avevano gli schiavi” e altre amenità da social network, la polemica prende strane imprevedibili direzioni. Chi attacca la statua ricorda le gesta coloniali di Montanelli con un certo comprensibile raccapriccio. Chi la difende si appella alle imperiture assoluzioni della storia: i tempi erano quelli, le usanze, le tradizioni abissine, le gioie dell’impero. In gran parte gli stessi che esultavano all’abbattimento di altre statue (Saddam Hussein, per dirne una) o che non sprecano corsivi indignati per altri vandalismi.
Indignati speciali
Colpisce che la schiera degli indignati speciali per qualche latta di vernice sia composta da maschi, bianchi, sopra i cinquanta, in posizioni di potere. Tutti giornalisti. C’è da chiedersi: come mai? È solidarietà di categoria (giù le mani dal grande collega)? O la lettura è storica? O politica? Tutto si intreccia. Ma come mai c’è una statua, a Milano, dedicata a un personaggio così controverso? Perché si è sentito il bisogno di un omaggio di tipo ottocentesco, quando busti e statue non usano praticamente più?
Sarà dedicata al Montanelli il grande storico? Poco credibile, perché la sua Storia d’Italia scritta a sei mani con Roberto Gervaso e Mario Cervi è un bignami in 22 volumi sul quale nessuno storico baserebbe un’analisi seria.
Sarà dedicata al giornalista che “scriveva bene”? Questo sarebbe da discutere, perché non risulta che in Italia si siano costruite statue per persone che – pur con qualche scheletro nell’armadio – “scrivono bene”. Che motivazione sarebbe? Ognuno potrebbe esercitarsi sui suoi autori preferiti e per Milano, anche senza scheletri nell’armadio, la lista sarebbe già lunga.
Se invece il tributo della città è stato al giornalista vittima di terrorismo (la statua sorge dove Montanelli fu gambizzato dalle Brigate Rosse nel 1977), va detto che forse, in città, andava prima dedicata una statua a Walter Tobagi.
Quello di Montanelli è uno stile burbero, provocatorio, pesante e volgare
Ma torniamo al mito del Montanelli che “scrive bene”. Prendiamo a modello l’articolo che scrisse (nel 2000, non nel 1935) sulle colonne del Corriere della Sera per raccontare quel lontano episodio della sua vita coloniale. Parole come “faticai a superare il suo odore” (del “docile animalino”, come Montanelli definì la ragazza in un’intervista televisiva del 1982). Oppure: “Non era un contratto di matrimonio, ma – come oggi si direbbe – una specie di leasing, cioè di uso a termine”. E quando il malcapitato ventiseienne ufficiale dell’impero si accorse che la ragazza era infibulata, descrive in parole povere (davvero povere) come “ci volle per demolirla il brutale intervento della madre”.
In quelle righe trovano spazio parole di ravvedimento? Di affetto per la povera bambina schiavizzata? Pietà, partecipazione? Niente, solo comprensione per se stesso, con il paternalismo finale quando scopre (anni dopo) che la ragazza ha avuto un figlio e l’ha chiamato Indro. In due parole (in tre colonne di Corriere della Sera datate 12 febbraio 2000), una riproposizione cruda e orgogliosa del buon italiano alle colonie, un misto di buon padre, di padrone umano, di invasore gentile (della serie: “Abbiamo costruito le strade”). A voler sottilizzare si tratta di uno stile burbero, provocatorio, pesante e volgare, una specie di Sgarbi giornalistico prima della tv, un D’Annunzio fuori tempo massimo, un giornalista che a noi, da giovani, quando ne sentivamo parlare, sembrava un esponente del genere trash-in-divisa, teorico dell’ordine per generali in pensione, anche un po’ favorevole al golpe, se si potesse, signora mia (vedi le lettere all’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce), eccetera eccetera.
Il contesto
“Bisogna contestualizzare la storia,” è il refrain dei montanellisti di oggi. E sì, la storia è che un’aggressione fascista ai popoli africani portò con sé massacri, armi chimiche, stupri, violenze e anche quello sciovinismo colonialista che permetteva all’ufficiale Montanelli di comprare (insieme a un cavallo e a un fucile, per 350 lire) il “docile animalino”. Insomma, faccetta nera, carne fresca per i conquistatori. Beh, è la storia, si dice. Esatto. È proprio quella storia, perché in Italia, anche nell’Italia del 1935, fascista e imperiale, se toccavi una bambina di dodici anni andavi in galera, mentre in terra di conquista era lecito e accettato. Basterebbe questo a contestualizzare: il mito degli “italiani brava gente” dev’essere parecchio resistente se anche 85 anni dopo resiste la leggenda del “si usava così”.
Dov’eravamo nel 2006 quando il sindaco Albertini deponeva in un giardino pubblico il grottesco manufatto funerario? Eravamo distratti dalla lotta senza quartiere tra Silvio Berlusconi e il resto del mondo? Era troppo vicina la morte di Montanelli e non esisteva quindi una giusta distanza storica? La sua riabilitazione come “nemico dei poteri forti” gli aveva creato un’aura tale da oscurare le sue malefatte in orbace mai rinnegate, anzi ri-raccontate senza nessuna rielaborazione dettata dalla maturità? Eppure proprio quei poteri forti chiedevano a gran voce la statua e plaudivano al taglio del nastro.
Parliamo dunque di oggi. Montanelli non aveva né ha mai avuto particolari meriti per avere un simile monumento, anzi. La sua manifesta misoginia (si pensi alle “bastonature” alle giornaliste Tina Merlin e Camilla Cederna), il suo mai avvenuto pentimento per quel passato, anzi il suo rivendicarne il virile e coloniale nucleo ideologico, ne fanno, se non un mostro, almeno uno a cui non tributare un monumento.
Ed è pienamente condivisibile la sensibilità delle nuove generazioni (le ragazze con la vernice rosa, i ragazzi con quella rossa) che tornano a parlare dei crimini coloniali italiani, dei corpi delle donne come bottini di guerra, della violenza contro popolazioni inermi di ieri: insieme al razzismo che ne discende, e ai colpi di coda del patriarcato, sono problemi ancora tutti sul tavolo oggi.
Leggi anche:
Guarda anche:
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it