La notte nella quale Benjamin Netanyahu vinse per la prima volta le elezioni, nel maggio del 1996, fece freddo nonostante il vento caldo del deserto. Fu così che giustificammo il brivido che ci passò sulla schiena. Eravamo all’inizio del nostro servizio militare, ancora incredule per aver votato per la prima volta nella nostra vita. Eravamo ragazze con la divisa e il fucile che sapevano abbastanza del nostro passato, poco del nostro presente e quasi nulla del futuro.

Furono le prime elezioni dopo l’assassinio dell’ex primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Che noi, la “generazione delle candele”, avevamo seguito con trepidazione davanti alle tv, assieme a un paese intero. Furono elezioni di testa a testa tra Benjamin Netanyahu, all’epoca un giovane politico ma molto criticato, e l’attuale presidente israeliano Shimon Peres, allora candidato laburista.

Sono passati diciassette anni. Quell’anno il Time, sulla sua copertina, si chiese: “Sarà in grado di portare la pace?”. Pochi mesi fa, prima delle ultime elezioni, il Time l’ha definito “Bibi The King”. Non ha più risposto alla domanda del ‘96. Questa potrebbe anche essere l’ultima copertina dedicata a lui. “È incredibile”, tuona David Grossman, intervistato dalla televisione israeliana la sera prima delle elezioni. “Sono circa cent’anni che scegliamo la strada delle guerre senza mai arrenderci. L’unica volta che abbiamo provato la strada della pace, dopo il primo fallimento abbiamo perso subito la speranza”.

Grossman è tra le poche persone che parlano di pace. Una soluzione, sostiene lo scrittore, “che ci serve, non perché fa bene agli arabi ma perché fa bene a noi”. Grossman, assieme ad altri scrittori e intellettuali israeliani, è un forte sostenitore del partito Meretz. Un piccolo partito di sinistra (appena 6 seggi nelle ultime elezioni), che crede fermamente nella soluzione di due nazioni per due popoli.

A differenza dei tanti giornalisti, scrittori ed intellettuali passati in politica, Grossman sostiene che “ognuno deve fare le cose che sa fare”. All’intervistatrice che gli chiedeva perché, ha risposto: “Se vado a dirigere il governo, chi si metterà al posto mio a scrivere le mie storie?”.

Dal maggio del 1996 è cominciata un’altra storia. Da quando, divise in fila per tre, ci hanno annunciato i risultati delle elezioni. Yitzhak Rabin, un leader visionario, era stato da poco assassinato, portando via con sé la nostra speranza di pace. Ricordo che ancor prima di comunicarci i risultati dei primi exit poll, ci dissero di non esprimere nessun tipo di emozione, e di mantenere il massimo silenzio. “Non siete in un campo estivo”, gridavano gli ufficiali, “siete soldatesse all’esercito dello stato israeliano”.

Quando ci fu chiaro che il vincitore in quella tornata elettorale era Netanyahu, a qualcuna di noi sfuggì una smorfia di delusione. Altre si misero a piangere. Era un pianto che racchiudeva in sé sconcerto e paura per una possibile punizione dei superiori, con 21 giorni di fermo in caserma. Ma evidentemente non piangevano solo per questa ragione.

Con la conferma di Netanyahu come primo ministro, si potrà rinchiudere il ventennio personificato dall’effetto “Bibi”. Bibi che va, ma più che altro, Bibi che torna. Lo slogan elettorale di Netanyahu all’epoca era “facciamo una pace sicura”, che in ebraico ha un secondo significato: “facciamo la pace, sicuro”.

Oggi nel mezzo di sorprese elettorali, di resoconti e di sconfitte, lo slogan attuale di Netanyahu “un leader forte per un governo forte” è mestamente anacronistico, visti i risultati e il crollo del partito di maggioranza relativa del ticket Netanyahu-Liberman.

E della pace non parla più nessuno.

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