Gli ultimi dati chiariscono che, anche dopo la diffusione del vaccino, non possiamo permetterci di rilassarci. La pandemia non è finita (il numero delle infezioni sta risalendo e forse ci attendono nuovi lockdown) e altre catastrofi sono all’orizzonte. Alla fine di giugno nel nordovest degli Stati Uniti e nel sudovest del Canada una bolla di calore – un fenomeno meteorologico nel quale l’alta pressione intrappola e comprime l’aria calda, facendo aumentare le temperature – ha fatto salire il termometro a quasi cinquanta gradi centigradi, rendendo Vancouver più calda del Medio Oriente.
Questo fenomeno è l’apice di un processo molto più ampio: negli anni scorsi la Scandinavia del nord e la Siberia hanno superato regolarmente i trenta grandi. L’Organizzazione meteorologica mondiale sta cercando di verificare un nuovo record di temperature massime a nord del circolo polare artico, dopo che la stazione meteo di Verchojansk, in Siberia, ha registrato 38 gradi il 20 giugno. Nella città russa di Ojmjakon, considerata il luogo abitato più freddo sulla Terra, è stato il giugno più caldo di sempre (31,6 gradi). In parole povere, i cambiamenti climatici stanno friggendo l’emisfero nord.
La bolla di calore è un fenomeno locale, ma è il risultato di una tendenza climatica globale che dipende dall’intervento umano sui cicli naturali. Se è vero che il clima si sta surriscaldando, questo processo culmina in manifestazioni locali estreme, le quali prima o poi formeranno una catena di momenti critici globali. Per dirla senza tanti giri di parole: dovremo abituarci a convivere con varie crisi simultanee. Se osserviamo i dati in maniera lucida, c’è una conclusione che possiamo trarre: ogni essere vivente ha come ultima uscita la morte (per questo Derek Humphry ha intitolato il suo libro sul suicido assistito Eutanasia: uscita di sicurezza, Elèuthera 1993). Le crisi ecologiche aprono la prospettiva realistica di un’ultima uscita (suicidio collettivo) per l’umanità. Ma esiste un’ultima uscita dal nostro cammino verso la perdizione? O è già troppo tardi e non ci resta altro da fare che trovare un suicidio indolore?
Dovremmo imparare ad accettare il nostro ambiente in tutta la sua complessa miscela
Cosa dovremmo fare? Prima di tutto rifiutare il luogo comune secondo cui siamo una parte della natura e non il suo centro. Secondo quest’idea, per combattere le crisi climatiche dovremmo cambiare il nostro modo di vivere: limitare l’individualismo, sviluppare nuove solidarietà e accettare il nostro modesto ruolo su questo pianeta. Come ha scritto Judith Butler, “un mondo abitabile per gli esseri umani dipende da una Terra che fiorisce e che non ha gli esseri umani al centro”.
Ma non è forse vero che il riscaldamento globale c’impone degli interventi collettivi che avranno delle conseguenze sul delicato equilibrio tra le forme di vita? Quando diciamo che l’aumento della temperatura dev’essere mantenuto sotto i due gradi, parliamo come se fossimo i supervisori della vita sulla Terra, non una specie tra le altre. La rigenerazione del pianeta dipende da questo compito titanico. Se dobbiamo preoccuparci anche della vita dell’acqua e dell’aria, significa che siamo quelli che Marx definisce “esseri universali”, capaci cioè di uscire da noi stessi e percepirci come un momento secondario della totalità della natura.
Iperoggetti
Cercare rifugio nella modestia della nostra mortalità è un’uscita illusoria e ci porterà alla catastrofe. In quanto esseri universali, dovremmo imparare ad accettare il nostro ambiente in tutta la sua complessa miscela, che include quello che percepiamo come inquinamento, oltre a quello che non possiamo direttamente percepire perché troppo grande o troppo piccolo, quelli che il filosofo britannico Timothy Morton chiama gli “iperoggetti”. Per Morton essere ecologisti non significa “passare del tempo in una riserva naturale incontaminata, bensì apprezzare l’erba che si fa strada tra le crepe dell’asfalto, e poi apprezzare l’asfalto. Fa parte del mondo e fa anche parte di noi. La realtà è popolata di strani stranieri, cose che sono conoscibili ma misteriose”.
“Questa strana stranezza”, scrive Morton, “è un elemento irriducibile di ogni roccia, albero, terrario, Statua della libertà di plastica o buco nero in cui una persona potrebbe imbattersi. Ammettendolo, ci allontaniamo dall’idea di cercare di gestire gli oggetti e andiamo verso quella d’imparare a rispettarli nella loro ineffabilità”. Morton include nella categoria della natura tutto ciò che è spaventoso, brutto, artificiale. Un esempio di questa miscela di cose è il destino dei ratti di Manhattan durante la pandemia. Manhattan è un sistema vivente di esseri umani, scarafaggi e milioni di ratti. Durante il lockdown i ristoranti erano chiusi e i topi che vivevano di spazzatura sono stati privati della loro fonte di sostentamento. Questo ha provocato una carestia di massa e si è scoperto che molti ratti mangiavano i loro cuccioli. La chiusura dei ristoranti si è rivelata una catastrofe per i topi.
Un incidente simile era già avvenuto in passato. Nel 1958, all’inizio del grande balzo in avanti, il governo cinese dichiarò gli uccelli “gli animali pubblici del capitalismo” e lanciò un’ampia campagna per sterminare i passeri, sospettati di mangiare i cereali. Furono distrutti nidi e uova di passero, e furono uccisi i pulcini. Questi attacchi decimarono la popolazione dei passeri, spingendoli quasi all’estinzione. Tuttavia nell’aprile del 1960 i dirigenti cinesi furono costretti a rendersi conto che i passeri mangiavano anche grandi quantità d’insetti nei campi e dopo la campagna per eliminarli i raccolti di riso, invece di aumentare, diminuivano: lo sterminio dei passeri scombussolava l’equilibrio biologico, e gli insetti distruggevano le piantagioni. Senza passeri che le mangiavano, esplose il numero di locuste, che devastarono la campagna e amplificarono i problemi ecologici già causati dal grande balzo in avanti, tra cui una diffusa deforestazione e un uso sbagliato di veleni e pesticidi. Si ritiene che lo squilibrio ecologico abbia aggravato la grande carestia cinese, durante la quale secondo le stime morirono di fame tra i 15 e i 55 milioni di persone.
La risposta alla bolla di calore negli Stati Uniti e in Canada non dovrebbe coinvolgere solo le aree colpite, ma puntare alle cause globali
Quindi dobbiamo accettare che siamo una delle tante specie sul pianeta, ma al tempo stesso dobbiamo agire come supervisori della vita sulla Terra. Visto che non siamo riusciti a imboccare altre uscite (le temperature globali aumentano, gli oceani sono sempre più inquinati e così via), sembra sempre più probabile che l’ultima uscita prima di quella definitiva (il suicidio collettivo dell’umanità) sarà una qualche versione del comunismo di guerra. Non parlo di una riabilitazione o prosecuzione del “socialismo realmente esistente” del novecento né tantomeno dell’adozione globale del modello cinese, ma di misure imposte dalla situazione in cui viviamo.
Quando facciamo i conti con una minaccia alla nostra esistenza, entriamo in uno stato d’emergenza come in tempo di guerra, che può durare anni. Per garantire le condizioni minime della nostra sopravvivenza è inevitabile mobilitare tutte le nostre risorse, se si vogliono affrontare cose come lo sfollamento di decine, forse centinaia di milioni di persone a causa del riscaldamento globale. La risposta alla bolla di calore negli Stati Uniti e in Canada non dovrebbe coinvolgere solo le aree colpite, ma puntare alle cause globali. E, come chiarisce la catastrofe in corso nel sud dell’Iraq – dove a luglio le temperature hanno superato i 50 gradi e contemporaneamente è crollata la rete elettrica, fermando frigoriferi, condizionatori e illuminazione –, un apparato statale capace di garantire un minimo di benessere alle persone in condizioni difficili sarà necessario per evitare le esplosioni di rabbia della società.
Tutte queste cose possono essere – e saranno – ottenute solo attraverso una cooperazione internazionale, il controllo sociale, la regolamentazione dell’agricoltura e dell’industria, la trasformazione delle nostre abitudini alimentari fondamentali – minor consumo di carne di manzo –, una copertura sanitaria globale e così via. È chiaro che la democrazia rappresentativa da sola non sarà sufficiente a svolgere questo compito. A un potere esecutivo molto più forte, capace di mantenere impegni di lungo periodo, dovrà essere affiancata l’autorganizzazione delle persone e un forte organismo internazionale capace di prevalere sulla volontà degli stati nazione.
Non sto parlando di un nuovo governo mondiale: una simile entità genererebbe un’immensa corruzione. E non sto parlando di abolizione dei mercati: la concorrenza di mercato dovrebbe svolgere un ruolo, anche se regolamentato e controllato. Quindi perché usare il termine “comunismo”? Perché ciò che dovremo fare contiene quattro aspetti di un regime radicale. In primo luogo c’è una dimensione volontaristica: i cambiamenti necessari non sono radicati in alcuna necessità storica, ma saranno ottenuti contro la tendenza spontanea della storia. Come ha detto Walter Benjamin, dobbiamo tirare il freno d’emergenza del treno della storia. Poi c’è l’ugualitarismo: solidarietà globale, copertura sanitaria e una vita decente per tutti. Ci sono poi elementi di quello che non può che apparire ai liberali più sfegatati come un “terrore”, il cui sapore ci è diventato familiare con la pandemia: limitazione di molte libertà personali e nuovi modelli di controllo. Infine, c’è la fiducia nelle persone: tutto sarebbe perduto senza la partecipazione della gente comune.
Non è una visione distopica, ma il risultato di una semplice valutazione della condizione in cui ci troviamo. Se non imboccheremo questo cammino, succederà quello che già osserviamo in Russia e negli Stati Uniti: l’élite al potere si sta preparando alla sua sopravvivenza in giganteschi bunker sotterranei nei quali migliaia di persone possono continuare a vivere per mesi, con la scusa che l’attività di governo deve andare avanti anche in queste condizioni. Le nostre élite si stanno già organizzando per questo scenario. E questo significa che sanno bene che il campanello d’allarme sta suonando.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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