La stazione Termini, a Roma, nel novembre del 2012. (Jtb Photo/UIG via Getty Images)

La redazione di Internazionale si trova in via Volturno, a Roma, davanti alla stazione Termini. Qui passano ogni giorno 480mila persone tra pendolari, turisti, viaggiatori e passeggeri della metropolitana. E qui, un po’ come in tutte le stazioni, ci vivono molte persone.

Passare ogni mattina da Termini vuol dire incontrare ogni giorno la stessa signora anziana che ti dice che sei bellissima e ti chiede un aiuto per la colazione, essere fermati da uno dei ragazzi del Bangladesh che vendono i biglietti per i bus turistici, vedere l’uomo che anche con 35 gradi all’ombra indossa giaccone e mascherina e sventola le braccia come a scacciare qualcosa, provare a chiedere l’intervento medico per la ragazza che si aggira sanguinante, trasandata e assente, cercare di evitare gli angoli più nascosti che qualcuno di notte ha usato come gabinetto.

Tutto questo ė realtà. Ma perché alcuni giornali sentono l’esigenza di lanciare campagne per il decoro e la sicurezza senza sentire la stessa necessità di assicurare il decoro e la sicurezza di quella ragazza, di quell’anziana?

“Dalle obliteratrici ai bagagli da muovere il taglieggiamento è continuo”, scrive la Repubblica il 9 luglio. Al giornalista i viaggiatori raccontano di borseggiatori e tassisti abusivi, ma soprattutto di ragazzi che provano a vendere accendini, bottiglie d’acqua a un euro e cappelli contro il sole.

Il cronista del Giornale usa un linguaggio da zoologo per descrivere le sue due ore trascorse a Termini: “Non assisti ad alcun reato, a parte la mezza minaccia che hai dovuto gestire con freddezza apparente, ché la paura nella guerra urbana è come il sangue per gli squali: ti rende preda. Però no: nessuno scippo, nessun furto, nessuna violenza. Ma forse hai assistito a qualcosa di peggio. Alla sistematica, ordinaria cancellazione di ogni sicurezza, di ogni tutela”.

Per due o forse tre anni la stazione è stata un cantiere abbandonato a se stesso e privo di ogni norma di sicurezza e igienica: passaggi angusti con tubi e cavi a vista (e sempre 480mila frequentatori al giorno), nessuna via di fuga e rifiuti debordanti. E, certo, anche le tracce di chi ci ha passato la notte. Per chi deve transitare da lì quotidianamente è questa la mancanza di tutela. E il degrado porta degrado.

I borseggiatori e i tassisti abusivi sono illegali, vendere accendini o chiedere una mancia a un turista per portargli i bagagli forse non è lecito, ma fa parte di quell’arte di arrangiarsi ben nota a larga parte della popolazione mondiale.

A Termini due città sembrano collidere: la città dei poveri e quella dei ricchi. Il libro Romanzi non scritti racconta alcune storie della città dei poveri, anche se di Civitavecchia. “Dire il senzatetto, il barbone, ha senso quanto dire il maschio, la femmina, il disoccupato, l’adulto”, scrive Michele Capitani. “Sarebbe meglio utilizzare un caro e semplice e antico sostantivo, così largo e così pieno: il povero, anche se è un termine in disuso. Forse è una parola che ci imbarazza, noi che ci lasciamo prendere da quella peste del nostro tempo che è l’eufemismo, l’ipocrisia comunicativa, che ci fa illudere di rimuovere i problemi perché rimuoviamo le parole”.

Stefania Mascetti lavora a Internazionale. Su Twitter: @smasc

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