Siamo in ritardo con l’azione globale sul clima. L’ha evidenziato il più recente rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), il principale organismo internazionale per la valutazione scientifica dei cambiamenti climatici. L’Ipcc ha sottolineato che si sta perdendo “una finestra di opportunità per assicurare un futuro vivibile e sostenibile per tutti” e nella terza parte del rapporto pubblicata il 4 aprile è stato sottolineato che senza una veloce riduzione delle emissioni al livello globale, contenere il riscaldamento entro la soglia di 1,5 gradi non sarà possibile.
L’Ipcc pubblica i suoi rapporti di valutazione dal 1990, la scienza del clima lancia l’allarme sul riscaldamento globale e sullo sfruttamento degli ecosistemi da ancora prima e, da almeno cinquant’anni, si conoscono i rischi climatici legati all’uso dei combustibili fossili – le aziende stesse ne sono al corrente da decenni. Eppure, siamo comunque in ritardo nella lotta al cambiamento climatico.
In parte questo ritardo è dovuto agli sforzi delle aziende di combustibili fossili e dei loro gruppi di pressione che – dagli anni settanta e soprattutto negli Stati Uniti – hanno promosso la disinformazione sul clima attraverso azioni di lobby, finanziamenti e strategie di comunicazione estremamente efficaci. L’obiettivo principale era ritardare e ostacolare l’iniziativa politica sul clima perché una regolamentazione governativa sulle emissioni avrebbe significato perdere profitti immensi. Ma le ragioni di chi promuove i combustibili fossili non sono solo economiche, e spesso s’intrecciano ad altre dimensioni che hanno a che fare con l’ideologia politica, la psicologia e il senso d’identità.
Riconoscere queste dinamiche aiuta a comprendere le motivazioni di chi agisce contro le politiche climatiche e la transizione energetica, e offre l’opportunità di trovare elementi comuni nelle caratteristiche e nell’azione di individui, gruppi e aziende impegnati nell’ostacolare l’azione sul clima al livello globale.
Il negazionismo dei cambiamenti climatici può essere inteso come un’espressione di protezione dell’identità di gruppo
Questo, inoltre, rende evidente quanto la crisi climatica derivi da un cortocircuito sistemico che non riguarda “solo” l’ambiente. Nelle sue cause oltre che nelle sue conseguenze, infatti, la crisi climatica interseca ogni dimensione, da quella economica a quella sociale.
Mantenere e aumentare la produzione di combustibili fossili, per esempio, è una questione di profitto, ma anche di potere e di conservazione dello status quo.
La difesa dei combustibili fossili, esplicita o velata (attraverso tattiche come il greenwashing, per esempio), coincide con la difesa di alcuni valori identitari e a sua volta con il negazionismo del cambiamento climatico, un fenomeno che comprende tutti gli sforzi mirati a ritardare la transizione energetica. In molti casi questo va di pari passo con il conservatorismo politico, il libertarismo economico o l’estremismo ideologico. Non è un caso, infatti, che alcuni studi di scienze sociali riconoscano la sovrapposizione tra negazionismo climatico e populismo, sovranismo o xeno scetticismo, un atteggiamento di diffidenza e discriminazione verso l’altro, caratteristico di alcune tendenze xenofobe.
I sociologi statunitensi Aaron McCright e Riley Dunlap sostengono che il negazionismo dei cambiamenti climatici può essere inteso come un’espressione di protezione dell’identità di gruppo e la giustificazione di un sistema sociale da cui traggono beneficio i negazionisti.
Alla base, è il combustibile fossile stesso a rappresentare un’identità. Questa associazione identitaria avviene su più piani ma è caratteristica soprattutto di chi beneficia della ricchezza derivante dalla produzione dei combustibili fossili e dunque mette in campo strategie di ostruzione alle politiche climatiche. Le radici di queste interrelazioni sono storiche, in particolare negli Stati Uniti: estrarre e bruciare carburante fossile era l’espressione diretta dell’americanità bianca e maschile. Nella dimensione conservatrice, l’America è il petrolio, l’America è l’uomo bianco e di conseguenza l’uomo bianco è il petrolio.
Questa realtà ha, in un certo senso, delineato anche una dinamica opposta, per cui l’ambientalismo è associato a una dimensione femminile che, in una simile prospettiva, se espresso, diventa prova di una presunta fragilità. Il meccanismo è stato osservato da una serie di studi dell’università della Pennsylvania secondo cui uomini e donne erano più propensi a mettere in discussione l’orientamento sessuale di un uomo se si impegnava in comportamenti ambientalisti etichettati come “femminili”, come l’uso di borse per la spesa riutilizzabili.
Mascolinità industriale
Il ricercatore e autore Martin Hultman parla di un “pacchetto di valori” direttamente collegati alla “mascolinità industriale del breadwinner” (chi porta a casa il pane, il capofamiglia). Hultman, insieme al ricercatore Jonas Anshelm, è autore di uno studio della Chalmers university of technology in Svezia secondo cui i negazionisti del cambiamento climatico sono strettamente intrecciati con la “mascolinità industriale in declino” e, per questo, tentano di salvare la società che la garantisce.
Salvarla a qualunque costo, dunque anche esercitando violenza e autoritarismo. Sul piano sistemico, questo approccio è ereditato dal cosiddetto dualismo, per cui la separazione fabbricata tra uomo e natura – associata spesso a una dimensione femminile – legittima lo sfruttamento, l’abuso e il possesso. Cara Daggett, autrice e ricercatrice presso il dipartimento di scienze politiche dell’università della Virginia, la chiama petromascolinità, un termine introdotto per la prima volta nel 2018 con un suo articolo pubblicato sulla rivista accademica Millennium.
L’uso dei combustibili fossili, scrive Daggett, è “una reazione compensativa e violenta” contro le rivendicazioni ecologiche e di genere. Non è una coincidenza, sostiene, che gli uomini americani bianchi e conservatori siano tra i più attivi negazionisti del clima e i principali sostenitori dei combustibili fossili in occidente.
L’interazione tra negazionismo climatico e sistemi patriarcali è ancora poco studiata. E anche sulle associazioni tra energia e mascolinità tossica c’è poca letteratura accademica. Tuttavia, osserva Daggett, l’identità maschile e gli ordini patriarcali che essa sostiene sono importanti per comprendere a fondo la mancanza di risposte politiche al problema della crisi climatica.
La petromascolinità è l’espressione più violenta del desiderio di potere e dello stile di vita garantito dal sistema fondato sui combustibili fossili
Il cambiamento climatico, il sistema di combustibili fossili e una “ipermascolinità” occidentale sono dimensioni che s’intrecciano diventando problemi che si amplificano a vicenda. “Sotto l’ossessione dell’ipermascolinità si rivela una paura di fondo”, sostiene Daggett: che si riveli la sua fragilità. In questa prospettiva, debolezza equivale a perdere mascolinità. Evitare di perderla dunque, o recuperarla, si traduce nel desiderio di mantenere il sistema fossile, anche con la violenza o l’autoritarismo.
Nel 2019, l’allora ministra dell’ambiente canadese Catherine McKenna stava camminando con i suoi figli per strada quando un’auto si era accostata accanto a loro. “Vaffanculo, Barbie del clima”, le aveva urlato contro l’uomo seduto alla guida. L’insulto era stato usato per la prima volta nel 2017 dal politico canadese Gerry Ritz (cosa per cui si è poi scusato) e da allora l’etichetta associata alla ex ministra è stata usata molte volte, soprattutto sui social network. Un’analisi di Conor Anderson del Climate lab all’università di Toronto sulle risposte ai tweet di McKenna dal 4 novembre 2015, il giorno in cui è stata nominata ministra, all’8 settembre 2019, il giorno in cui ha annunciato di aver chiesto una scorta a causa dei continui abusi verbali, ha rivelato che la ministra è stata chiamata “Barbie del clima” 6.961 volte, oltre che pesantemente insultata.
Simili attacchi sono stati diretti ad altre donne che si battono per la causa climatica, come la deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez e l’attivista svedese Greta Thunberg. E in molti casi sono parte di una strategia: poiché mira al carattere, a caratteristiche fisiche o personali è spesso considerata un modo efficace di spostare l’attenzione dai contenuti.
Si tratta di una strategia usata spesso in politica per delegittimare l’avversario. E nel caso delle donne che si battono per il clima può scaturire anche da un atteggiamento apertamente sessista e violento. Secondo Daggett, quindi, la violenza fossile può essere compresa anche come tattica misogina, nel senso della misoginia teorizzata da Kate Manne come un insieme di pratiche del dominio patriarcale e non come un generalizzato sentimento individuale di “odio per le donne”.
Manne sostiene che la definizione tradizionale della misoginia rende troppo difficile individuarla poiché ci si attorciglia sul significato delle parole e sulle “intenzioni del colpevole”. È invece più facile riconoscere, e dunque combattere, un modello di aggressione contro chi “osa” trasgredire le norme patriarcali, in particolare, quindi, le donne o le persone lgbt+.
La petromascolinità è l’espressione più violenta del desiderio di potere e dello stile di vita garantito dal sistema fondato sui combustibili fossili. E analizzare il sistema fossile attraverso la lente della misogina offre la possibilità di riconoscere che gli ostacoli all’azione sul clima sono di natura identitaria, psicologica e socioculturale, oltre che economica, ideologica e politica. La strenua difesa dei combustibili fossili non è solo una manovra politico-economica, è la conseguenza diretta di un sentimento di paura per un mondo in declino e il rifiuto di qualsiasi passo verso un cambiamento costruttivo.
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