Jeff Jarvis, BuzzMachine
Il fatto che un tribunale costringerà Google a cancellare dei link su internet è una notizia terribile per la libertà d’espressione.
(Getty Images)
Un giornalista mi ha chiesto cosa penso del fatto che Google, in seguito alla decisione assurda e pericolosa di un tribunale europeo, ha messo a disposizione degli utenti un modulo per chiedere di cancellare i link a contenuti sgraditi che li riguardano. Ecco cosa gli ho risposto.
È una una notizia terribile per la libertà di parola, per il web e per l’Europa. La corte di giustizia dell’Unione europea ha calpestato la libertà d’espressione non solo di Google, ma anche dei siti e degli autori a cui rimandano i suoi link.
La corte ha deciso di controllare il sapere, di cancellare cose che già sappiamo: un concetto oltraggioso nei confronti di una società aperta e moderna, e che in passato è stato usato dai tiranni. Ci si sarebbe augurati che i giuristi europei fossero i primi a riconoscere il pericolo di quel precedente.
Il tribunale ha messo in discussione la struttura stessa dell’invenzione di Tim Berners-Lee – il link, il fondamento del web – affermando che Google, e poi forse ognuno di noi, è legalmente responsabile dei link alle informazioni.
I giornali, adesso, saranno costretti a cancellare i link e le citazioni? Le biblioteche dovranno eliminare le schede dai loro cataloghi?
Paradossalmente, la corte ha attribuito più potere a Google, perché l’azienda deciderà quali sono le informazioni che è opportuno trovare e quali no. Inoltre il tribunale europeo ha dato all’azienda dei parametri assurdi: per esempio, stabilire cosa è pertinente a cosa, a chi e a quale contesto.
Non sappiamo come i motori di ricerca metteranno in pratica questo decreto. Uno degli interrogativi ancora aperti è in che modo i siti potranno appellarsi a questa decisione una volta privati dei loro link.
Se questo procedimento sarà pubblico, come dovrebbe, non si rischia di richiamare ancora più attenzione sulle informazioni in questione? Un altro elemento da chiarire è se i contenuti bloccati in Europa resteranno accessibili (come spero) nel resto del mondo, dove la corte europea non ha alcuna autorità. In tal caso, se altre persone potranno accedere ai risultati delle ricerche, questo non contribuirà a rendere più visibili le informazioni oscurate?
Insomma, il tribunale potrebbe aver innescato una serie di effetti Streisand o, come ha detto il comico John Oliver durante il suo talk show sulla Hbo, l’unica cosa che si sa dello spagnolo che ha presentato il reclamo è quello che lui non voleva si sapesse.
E cosa dire poi dei motori di ricerca e dei siti che non hanno una sede in Europa e sui quali la corte non ha giurisdizione? Se rifiuteranno di eliminare i link su richiesta, il tribunale li renderà inaccessibili in Europa?
Infine sono preoccupato perché questo verdetto potrebbe confermare l’idea che l’Europa sia tecnofobica e antiamericana. Bisogna poi considerare le iniziative intraprese soprattutto in Germania: qui le autorità hanno imposto un Verpixelungsrecht (il diritto a essere “pixelati”) su Google Street View nonostante le foto siano scattate pubblicamente in luoghi pubblici, e gli editori tedeschi hanno deciso di coalizzarsi contro Google per costringere i politici ad approvare una legge che limiti la citazione di brevi paragrafi di contenuto.
Senza contare le misure altrettanto sconcertanti adottate in Francia, in Italia e in altri paesi. L’Europa è un luogo dove un’impresa o un investitore high-tech sceglierebbero di lavorare?
Lei mi chiede della nomina di Eric Schmidt e David Drummond a presidenti del comitato di consulenza istituito da Google per indicare come procedere. Questa scelta indica chiaramente quanto sia grave e pericolosa la situazione agli occhi di Google.
Proprio due settimane fa ero a Mountain View per parlare alla riunione degli esperti di privacy di Google e posso dirvi con certezza che erano tutti sconvolti dalla decisione del tribunale. Durante l’incontro ho detto all’incirca le stesse cose che ho scritto qui. Questo verdetto mi fa inorridire.
(Per chiarezza preciso che Google mi ha rimborsato le spese di viaggio ma che non ho alcun rapporto economico con l’azienda).
(Traduzione di Floriana Pagano)
Jeff Jarvis è un giornalista statunitense. Insegna giornalismo alla City University di New York. È l’autore di Public parts. Questo articolo è uscito sul suo blog con il titolo The right to remember, damnit.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it