Il 39 per cento degli investimenti diretti all’estero proviene dai paesi emergenti. Quindici anni fa la quota era dell’11 per cento. Una crescita impetuosa trainata dall’Asia che nel 2013 ha contribuito con il 7 per cento. Stati Uniti e Giappone sono ormai tallonati da Cina e India. I due colossi asiatici hanno spesso strategie divergenti, come dimostrano i dati dell’Emerging multinationals’ events and networks database.
L’analisi di questi dati, fatta su
lavoce.info da Alessia Amighini, Claudio Cozza e Roberta Rabellotti, evidenzia alcune fondamentali differenze di metodo tra i due paesi: mentre per i cinesi la principale modalità di investimento è sempre stata l’attività di greenfield (l’apertura di nuovi stabilimenti), tra gli indiani prevaleva fino a poco tempo fa la tendenza a comprare imprese già esistenti. Cina e India destinano all’Europa una quota simile dei loro investimenti (rispettivamente il 33 e il 31 per cento), ma mentre la Cina punta soprattutto sulla Germania, l’India si rivolge prevalentemente al Regno Unito.
Sono differenti anche i settori di specializzazione: i cinesi prediligono l’elettronica, la comunicazione e le auto; gli indiani si concentrano su software, servizi alle imprese e farmaceutica. In entrambi i casi, però, si tratta in maggioranza di investimenti isolati. Solo una minoranza rientra per ora in una strategia mista di acquisizioni e greenfield. In una situazione di grave crisi, l’apporto di capitali stranieri può essere decisivo per la ripresa. Osservare le strategie degli investitori è il modo migliore di creare il terreno adatto ad accoglierli.
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