Che cosa c’è di più finto del festival di Sanremo? E che cosa c’è di più sorprendente dell’autenticità che si nasconde dove tutto ciò che è autentico è vietato dal regolamento? Scovare un lapsus, il taglio di Fontana, Don Chisciotte di Orson Welles che squarcia il telo di proiezione, la cruna che lascia intravedere l’abisso oltre il fondale del teatro Ariston.
Cazzeggiando su YouTube, sono finito su vecchie clip del festival. Cantanti ignoti, dimenticati, che hanno avuto un’occasione nella vita e l’hanno sprecata. Spesso nemmeno per colpa loro. Canzoni troppo sofisticate che non furono capite. Ritornelli che arrivavano troppo tardi, o non arrivavano mai, dopo strofe che promettevano bene. Sono video di dieci, vent’anni fa. Certe immagini hanno già le cromie decomposte, lasciano scie di contorni disciolti nei vhs riversati in digitale.
Ho guardato cantanti miei coetanei, o più giovani di me, che sono passati a Sanremo negli ultimi vent’anni senza avere nessun successo, li ho immaginati nell’umiliante dopofestival della vita. C’è chi ha ufficialmente interrotto la carriera. Alcuni l’hanno fatto rilasciando interviste risentite contro i fan che li applaudivano e gridolinavano, sì, ma poi non compravano i dischi. Altri si sono rassegnati a fare serate in locali sotto casa, raggranellando qualche show case nei centri commerciali. Ho immaginato i sorrisetti dei vicini, “e pensare che era stato a Sanremo”, i commenti sardonici dei colleghi di prima e di dopo. Ritornare al lavoro nella concessionaria di auto usate, o dietro la scrivania dell’ufficio anagrafe.
Resto sul vago, volutamente. Non faccio nomi. Non voglio infierire. Ma vale la pena di perdere mezz’ora su YouTube, guardare quei volti che si giocano la vita in tre minuti. Quante volte avranno provato quella postura, quella mossetta, quella smorfia? Con che trepidazione si saranno messi quel nastro di stoffa sul collo al posto della collanina? Saranno passati dal dentista, qualche giorno prima, a farsi una bella pulizia per reggere i primi piani più impietosi? Tutto inutile.
Il mio sguardo arriva fino a questo punto. La mia è la banale esperienza di homo telespectans. Ma c’è qualcuno che ha saputo fare un passo più in là. Nel racconto Ogni giorno che va via è un quadro che appendo, Mauro Covacich descrive la classica serata con gli amici, a guardare una finale di Sanremo. È il 1994. Il protagonista, che somiglia molto all’autore, si autodenigra descrivendo se stesso nella tipica posizione di superiorità del telespettatore che spara giudizi: è la misera rivalsa per non essere capaci di distogliere lo sguardo dagli schermi, per essere rimasti avvinti, fin dall’infanzia, alla televisione e a tutti i rettangoli luminosi che sono venuti dopo. Ci si consola facendo del sarcasmo sui cantanti e sullo spettacolo, perché non si ha la forza di mandare affanculo l’unica cosa fondamentale, lo schermo stesso.
È uno splendido racconto retrospettivo, storicamente e narrativamente. Il cantante scadente, le risatine del protagonista e dei suoi amici, il testo enigmatico della canzone: tutto acquista senso a ritroso, nelle ultime righe, a causa di un’abbagliante rivelazione, un paio di mesi dopo quella serata. Il narratore lo legge sui giornali: quel cantante è morto, era malato, sapeva di avere poche settimane di vita, è salito sul palco a cantare la sua canzone terminale, facendo finta di niente, col sorriso sulle labbra, ha consegnato al mondo il suo motivetto testamentario: “La risposta, amore mio, è nascosta nel tempo, e ogni giorno che va via è un quadro che appendo. Mi piace vivere”.
Bisognerà pure che quest’epoca cominci a fare i conti con il tempo perduto, la quantità di esistenza collettiva dilapidata in cazzate: i beni comuni non sono solo l’acqua, i carburanti fossili, l’atmosfera. Per questo Mauro Covacich è un guaritore, il suo racconto è un toccasana, mi ha riconciliato almeno in parte con l’enorme quantità di tempo che ho buttato a guardare stupidaggini: perché è riuscito a trasformare la cronaca in eternità, o, se preferite, chrònos in aiòn. Da quando l’ho letto, per me Oppure no di Alessandro Bono è diventata e sarà sempre la vera sigla del festival di Sanremo, la sigla della vita, il lapsus che squarcia il fondale sbrilluccicoso e apre un varco sulla morte, mentre un agonizzante la canticchia sorridendo.
Nota. Il racconto Ogni giorno che va via è un quadro che appendo si trova in La sposa, di Mauro Covacich, un bellissimo libro di racconti, che mi dà ancora da pensare a distanza di mesi dalla prima lettura. Per fortuna, non tutto a questo mondo è giornalismo e recensione. Esiste anche la durata, la meditazione, le storie che restano e illuminano l’attualità senza avere mai preteso di starle addosso.
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