Quando ho pubblicato il mio primo libro, Il cuore oscuro dell’Italia, quasi dieci anni fa, un mio amico scherzò che ero specializzato in generalizzazione. Non era esattamente un complimento. Da allora ho pubblicato altri tre libri, ma ho sempre cercato una storia italiana che mi permettesse di raccontare il paese nello specifico, una piccola serratura che mi lasciasse vedere una scena più ampia. L’ho trovata nella tragica storia di Elisa Claps.
Elisa, come si sa, è la ragazza sedicenne scomparsa a Potenza nel 1993. Per quasi 17 anni non si è saputo più nulla di lei. Era una storia che mi intrigava per tanti motivi: in parte perché sono sempre stato affascinato dalla Lucania, una regione remota, antica e, spesso, dimenticata; in parte anche perché era un mistero nel senso puro. Poi, incredibilmente, l’assassino è andato a vivere nella mia regione, nel sudovest del’Inghilterra. Soprattutto, però, la sua storia mi dava l’opportunità di indagare su una domanda che mi sono sempre posto: perché in tanti gialli italiani la verità resta sfuggente? Perché di tanti crimini diventati simbolici non si scopre mai cos’è veramente successo?
Nel caso di Elisa, la prima ragione è una straordinaria incompetenza investigativa. Il principale sospettato aveva i vestiti macchiati di sangue, ma non furono sequestrati. La chiesa in cui Elisa sparì non fu mai perquisita. Durante il processo a Winchester (per un altro omicidio collegato al caso Claps) è venuto fuori che a Potenza i poliziotti avevano fotografato alcune scene del delitto senza il flash e le immagini erano troppo scure. Ci volevano altri due mesi per fare delle foto nuove.
L’incompetenza non è fortuita. Avviene per mancanza di meritocrazia. Molte persone sono state assunte perché “amiche di…”, “parenti di…” o perché tesserate di un certo partito. Il discusso pubblico ministero del caso, Felicia Genovese, per esempio, è stata sempre promossa e sostenuta dal centrosinistra. Poco dopo aver archiviato un’inchiesta contro dei politici di sinistra, suo marito Michele Cannizzaro (già molto chiacchierato per dei suoi contatti calabresi) è stato nominato direttore generale dell’ospedale San Carlo, a Potenza. In una piccola città di provincia, c’è sempre il sospetto che sia la persona più introdotta, e non la più abile, a ottenere un posto ambìto.
E quei legami hanno impedito un lavoro disinteressato. Incredibilmente, quando – con anni di ritardo – le autorità hanno perquisito la casa dei genitori dell’assassino, Danilo Restivo, hanno trovato un post-it con il numero di cellulare di “‘Licia” Genovese: due persone che avrebbero dovuto essere su fronti opposti erano, chiaramente, in contatto. Un pentito aveva anche dichiarato che Maurizio Restivo (padre di Danilo e direttore della biblioteca nazionale di Potenza) aveva pagato una grossa somma al marito di Genovese, Cannizzaro, perché intervenisse presso la moglie. Maurizio Restivo e Cannizzaro facevano parte della stessa loggia massonica, come anche il fidanzato di un’altra protagonista del caso. Contro questi potenti, che possibilità, allora, aveva un’umile famiglia di avere giustizia per la figlia?
Non ha aiutato nemmeno la riluttanza, da parte della città, a mettere il naso negli affari degli altri. Anche se una parte di Potenza si è dimostrata sempre vicina alla famiglia Claps, molti volevano evitare scontri e accuse. Per anni furono ignorati vari appelli, anche quelli lanciati da Chi l’ha visto. Serrare i ranghi sembrava più importante che trovare una sedicenne scomparsa. Pochi volevano fare la spia e rischiare di non essere figli di Maria.
Ma il macigno che ha bloccato di più la verità è stata la chiesa. La chiesa, si finiva sempre per intuire, non si tocca. Il prete della Santissima Trinità – la chiesa dove Elisa scomparve – bloccava continuamente indagini, perquisizioni, persino commemorazioni. Esattamente come successe con Cristina Golinucci (scomparsa in un convento in provincia di Cesena nel 1992), la chiesa ha fatto di tutto per salvaguardare la sua reputazione. Ancora oggi il ritrovamento di Elisa nella stessa chiesa, nel marzo del 2010, è poco chiaro. Sembra più una “presentazione”, una messa in scena, che un ritrovamento. Il vescovo era stato informato due mesi prima che c’era un cranio in chiesa, ma dice di aver capito “ucraino”.
All’inizio del libro cito la frase della scrittrice americana Ann Cornelisan, che ha vissuto per anni in Lucania: “Nell’Italia del sud la cosa più semplice diventa la più complicata”. In 17 anni di mancata verità, le fantasie, i depistaggi e le dietrologie sono fiorite. Sembrava che Elisa fosse in Albania, Algeria o Brasile. Frutto di un voluto gioco sporco ma anche di un innocente fantasticare, questi depistaggi oscuravano il fatto che, al contrario, la cosa più complicata era la cosa più semplice. La famiglia Claps sapeva fin dall’inizio precisamente chi era il colpevole.
L’unica cosa piacevole nello scrivere su una vicenda così triste è stato scoprire alcuni eroi. La famiglia Claps – come osservava il giudice di Winchester – si è comportata sempre con incredibile dignità. Don Marcello Cozzi, il prete buono di Libera, ha lottato per anni per la verità. Un investigatore privato, Marco Gallo, ha lavorato pro bono per un decennio. Anche se “il caso” ha svelato risvolti loschi, ha dato anche tanti motivi di ottimismo.
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