Nel diciannovesimo secolo l’espressione “il grande gioco” era usata per descrivere la competizione tra l’impero russo e quello britannico per ottenere il potere e l’influenza in Afghanistan e nei vicini territori dell’Asia centrale e meridionale. Nessuna delle due parti prevalse in quella che è diventata nota come “la tomba degli imperi”. Due secoli dopo, una superpotenza americana ha dovuto prendere nuovamente atto di una simile realtà.

La disfatta dell’Afghanistan, in cui un esercito forte di trecentomila uomini, addestrato ed equipaggiato dagli Stati Uniti, è collassato nel giro di alcune ore, serve a ricordarci i limiti della potenza statunitense nel Medio Oriente allargato.

Il presidente Joe Biden dovrà probabilmente subire le critiche più aspre per un ritiro eseguito in maniera disastrosa. Ma di colpe ce ne sono un po’ per tutti, a cominciare dalla infausta decisione di imporre la “costruzione nazionale” a un paese che ha resistito per migliaia di anni alle interferenze esterne.

Dopo la caduta di Kabul e il frettoloso ritiro statunitense da un paese in cui Washington ha sperperato mille miliardi di dollari, la domanda resta: cosa succederà ora in Medio Oriente?

È una domanda che interessa un’area estesa, che va dal Marocco al Pakistan, dalla Turchia fino al golfo Persico, attraverso il Corno d’Africa.

Ogni angolo del Medio Oriente e del Nordafrica sarà toccato in qualche modo dal fallimento dell’autorità statunitense in Afghanistan, la guerra più lunga nella storia del paese.

Una nuova Saigon?
Inevitabilmente, si fanno paragoni tra il ritiro degli Stati Uniti da Kabul, avvenuto in preda al panico, e scene simili viste a Saigon 46 anni fa. Per certi versi la situazione afgana è più preoccupante, perché gran parte del Medio Oriente rischia di precipitare nel caos.

La sconfitta dell’esercito sudvietnamita nel 1975 ha certamente influenzato gli sviluppi nei vicini stati dell’Indocina, ma le ricadute sono state fondamentalmente contenute. Con l’Afghanistan è diverso, nel senso che se la credibilità e la fiducia in se stessi degli Stati Uniti subirono un duro colpo in Vietnam, Washington rimase la forza militare dominante nel Pacifico occidentale prima dell’ascesa della Cina.

In Medio Oriente una Washington ridimensionata (dove la fiducia nella sua capacità di rispettare i propri impegni è stata scossa, se non frantumata) vedrà la sua autorità fortemente messa in questione. Questo avviene inoltre in un momento in cui Cina e Russia stanno mettendo alla prova a livello globale la determinazione degli Stati Uniti. Anche nella regione, Iran e Turchia stanno già cercando di riempire il vuoto svelato dal fallimento statunitense.

Pechino e Mosca, per le proprie ragioni, hanno entrambe un interesse nel futuro dell’Afghanistan. Per la Cina la questione va al di là di un semplice confine in comune, mentre per la Russia si tratta di una storica preoccupazione rispetto al rischio che l’estremismo afgano possa contagiare le sue popolazioni musulmane e quelle degli stati alla sua periferia.

Negli ultimi tempi la Cina si è coltivata i leader taliban. Alla fine di luglio il ministro degli esteri di Pechino, Wang Yi, ha avuto un incontro molto pubblicizzato con il capo politico dei taliban, il mullah Abdul Ghani Baradar.

Poi c’è il Pakistan, che negli anni ha sostenuto i taliban sia apertamente sia in segreto. Islamabad vedrà nella difficile posizione degli Stati Uniti un’opportunità per assumere un ruolo regionale più significativo.

Senza dimenticare che la Cina ha stretti rapporti con il Pakistan e una difficile relazione con gli Stati Uniti.

In Afghanistan i taliban potrebbero dimostrare di essere cambiati come dicono e onorare il proprio impegno a tentare di stabilire un governo basato sul consenso in un paese dilaniato da sanguinose divisioni etniche e tribali. Considerati i primi segnali di brutali rappresaglie e la reazione terrorizzata della popolazione afgana sotto choc, ci sarebbe bisogno di un atto di fede per credere che siano davvero cambiati.

Che implicazioni avrà in Medio Oriente?
Nell’Afghanistan controllato dai taliban potranno di nuovo insediarsi le succursali di Al Qaeda e del gruppo Stato islamico? I taliban emergeranno di nuovo come sponsor statale del terrorismo? Continueranno a lasciare che l’Afghanistan venga usato come un’immensa coltivazione per la commercializzazione dell’oppio?

In altre parole, i taliban cambieranno i loro modi e si comporteranno in modo da non costituire una minaccia ai propri vicini, e alla regione più in generale?

Dalla prospettiva degli Stati Uniti, l’uscita dall’Afghanistan fa sì che il tentativo di riportare in vita l’accordo nucleare con l’Iran rimanga il più importante dei loro affari in sospeso in Medio Oriente, se si mette da parte l’apparentemente irrisolvibile conflitto israelo-palestinese.

I tentativi di rianimare il Piano d’azione congiunto globale (Jcpoa) costituiscono un pilastro degli sforzi dell’amministrazione Biden di impegnarsi in modo più costruttivo in Medio Oriente. I progressi sono finora incerti. L’elezione di un nuovo presidente iraniano oltranzista complica ulteriormente gli sforzi di raggiungere il compromesso. L’incapacità di resuscitare il Jcpoa, abbandonato dal presidente Trump, aggiungerà un nuovo livello di incertezza (e rischio) nei calcoli mediorientali.

Nessun attore sarà più interessato di Teheran agli sviluppi nel vicino Afghanistan. La relazione dell’Iran con i taliban è stata a volte tesa, altre volte collaborativa, vista la preoccupazione a Teheran per gli abusi nei confronti della popolazione sciita. L’Iran sciita e i fondamentalisti sunniti taliban non sono partner naturali.

Ancor più lontano, gli ultimi sviluppi in Afghanistan attireranno una particolare attenzione da parte degli stati del golfo. Il Qatar ha fornito un rifugio diplomatico per i taliban durante i negoziati di pace con lo sconfitto governo di Ashraf Ghani. L’iniziativa di pace, sotto gli auspici degli Stati Uniti, oggi si rivela esser stata funzionale a mettere in buona luce le ambizioni dei taliban a tornare a pieno diritto al potere. È sconcertante che qualunque osservatore ragionevole abbia potuto credere diversamente.

L’Arabia Saudita sarà scombussolata dagli sviluppi degli ultimi giorni perché non è negli interessi di Riyadh che venga intaccata l’autorità statunitense nella regione. Ma i sauditi hanno i loro legami di lunga data con i taliban. Nella politica estera saudita l’Afghanistan non è un gioco a somma zero.

Più in generale questo colpo alla reputazione degli Stati Uniti nella regione sarà fonte di timori per i suoi alleati arabi, tra cui Egitto e Giordania. Per entrambi, ognuno con la propria versione dei taliban in agguato, gli eventi in Afghanistan non sono una buona notizia.

Il successo dei taliban in Afghanistan avrà implicazioni anche per l’angolo più infiammabile del Medio Oriente. Tanto in Iraq quanto in alcune parti della Siria in cui gli Stati Uniti mantengono una presenza militare, l’uscita di scena statunitense sarà fonte di inquietudini.

In Libano, che è diventato a tutti gli effetti uno stato fallito, la débâcle afgana andrà a sommarsi al clima di sconforto.

Israele dovrà fare i conti con le implicazioni della battuta d’arresto subita dal suo alleato principale. Una maggiore instabilità mediorientale non sembrerebbe andare a vantaggio di Israele.

In questa prossima fase gli Stati Uniti senza dubbio si tireranno indietro da tutti i loro impegni in Medio Oriente, eccetto quelli più urgenti. Sarà un periodo per riflettere su quali lezioni si possono imparare dalla dolorosa esperienza afgana.

Una lezione che dovrebbe essere di fondamentale importanza per gli Stati Uniti e i loro alleati è questa: combattere le guerre di uno “stato fallito” è una partita persa in partenza.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è stato pubblicato da The Conversation.

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