“Naturalmente sappiamo tutti quali sono gli argomenti proibiti”, ammette un giornalista cinese con cui sto parlando in un bar di Shanghai. “La rivoluzione culturale, il periodo di Mao, il Tibet, Tiananmen, sono tutte cose di cui non si può parlare”.
Avevo appena finito di leggere La rivoluzione della fame (Il Saggiatore 1998), il classico di Jasper Becker su come il Grande balzo in avanti di Mao si era trasformato in un grande disastro che aveva provocato la morte per fame di circa 30 milioni di cinesi.
L’avevo comprato a Hong Kong e passerà molto tempo ancora prima che si possa trovare nelle librerie di Pechino o di Shanghai.
“La Cina non è l’unico paese in cui c’è la censura”, gli faccio notare. “Solo che a volte i governi usano metodi diversi per imporre la loro volontà”.
Lo scorso ottobre la Far Eastern Economic Review era nel bel mezzo di uno dei suoi periodici bracci di ferro con il governo di Singapore, che usa spesso questa tecnica: invece di mettere al bando una rivista che non gli piace, ne limita la distribuzione, arrivando anche a sequestrare le copie in abbonamento. Le riviste hanno scoperto che irritare il suscettibile governo della città stato può essere molto costoso.
“E poi c’è l’Arabia Saudita”, ho continuato. Ho preso dal tavolo una rivista sugli spettacoli e le mostre di Shanghai e l’ho sfogliata fino ad arrivare alla foto di una ballerina in bikini che oscillava attaccata a una pertica. “A Riyad ci sarebbe una commissione di censori che la cancellerebbe con l’inchiostro nero”. “Davvero?”, ha risposto il mio amico cinese. “E perché?”.
Internazionale, numero 691, 4 maggio 2007
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