Continuo a pensare all’autobiografia di Chrissie Hynde Reckless, e alle polemiche suscitate dal fatto che sembra dare la colpa a se stessa per l’aggressione sessuale che ha subìto da adolescente. Quella triste storia la dice lunga su cosa significava essere rockettare e ribelli negli anni sessanta e settanta. E Chrissie la racconta con spavalda spacconeria, tessendo le lodi dei suoi eroi maschili del rock – “Volevo essere loro, non scoparmeli” – e della banda di biker che idolatrava – “Adoravo le loro moto e il loro modo di parlare di onore, lealtà e fratellanza”.

Ho sentito Chrissie intervistata sul suo libro alla radio, mentre cercava di rispondere a chi la accusava di avere un atteggiamento sbagliato sullo stupro. Un momento – ha obiettato lei – io non ho mai usato la parola “stupro”. Ed è vero, non la usa mai, e il tono con cui ne parla sottintende che la consideri piuttosto una specie di terribile iniziazione.

Scrive di avere avuto “quello che si meritava” per aver violato il codice del gruppo ed essere stata troppo sfacciata. A quanto pare, lei voleva solo essere rispettata dai tipacci, essere ammessa nei loro ranghi.

Può essere facile, oggi, dimenticare che una volta l’unica identità musicale disponibile era maschile

Comprensibilmente, la cosa non è stata presa bene e Chrissie è stata accusata di essere una di quelli che colpevolizzano la vittima. Ma a me la sua brutta esperienza sembra prima di tutto la disavventura di una ragazzina rockettara dell’epoca. Nata nel 1951, non aveva modelli femminili. Essere donna significava non avere un posto nella scena rock che lei amava tanto. “Pensavo che il sesso, come il diventare ‘una donna’, fosse qualcosa da rimandare il più possibile”, scrive.

Voleva talmente tanto essere una di loro che ne accettava le regole senza lamentarsi, senza piagnucolare, incassando i colpi da uomo. Ecco perché ha assunto quell’atteggiamento da macho, dandosi tutta la colpa.

Ho trovato il libro di Chrissie piuttosto freddo e triste, ed è stato un vero sollievo leggere Hunger makes me a modern girl di Carrie Brownstein. La band di Carrie, le Sleater-Kinney, è venuta fuori dalla scena punk e indie di Washington nei primi anni novanta, e il suo libro dimostra quante cose siano cambiate nei vent’anni che separano queste due donne.

Hynde agiva da sola, era una pioniera. È cresciuta andando a sentire i Rolling Stones, gli Who e i Led Zeppelin. A quei tempi le rock star femminili “si contavano sulle dita di una mano”. Brownstein invece è nata nel 1974, il suo primo concerto è stato quello di Madonna e a metà degli anni novanta poteva già contare sulla scena riot grrrl: “Una rete di persone che avevano trovato una possibilità di esprimersi”. Sia le fan sia i loro temi erano cambiati: “Le ragazze scrivevano e cantavano di sessismo e violenza sessuale, di padroni e fidanzati di merda”. Il femminismo e la politica di genere erano tornati ad affermarsi e questa volta le ragazze nella musica non facevano più da contorno.

Ricordo di essere stata a un concerto riot grrrl a Londra, una volta. Suonavano le Huggy Bear e le Bikini Kill e il pubblico era composto solo di donne. Era eccitante, molto diverso dai tempi del punk, quando potevano anche esserci delle donne sul palco ma di solito i maschi erano la maggioranza.

Il documentario The punk singer mostra Kathleen Hanna delle Bikini Kill sul palco durante un altro concerto. “Tutte le ragazze davanti”, urla. “Non sto scherzando. Tutte le ragazze davanti. E voi, ragazzi, fate i bravi per una volta in vita vostra. Andate indietro. Indietro” e fa segno ai ragazzi di arretrare in fondo al locale, rivendicando uno spazio fisico per le donne. Era il punto di arrivo di anni di rifiuto delle regole del rock’n’roll.

Quindi può essere facile, oggi, dimenticare che una volta l’unica identità musicale disponibile era maschile. Perfino Patti Smith, nostra eroina e paladina da tanto tempo, ha scritto che quando vedeva Keith Richards voleva essere lui. Come dice quello straordinario detto femminista, citato da Caitlin Moran: “Non posso essere quello che non posso vedere”.

Ma la generazione di Chrissie ha preso quel concetto e lo ha completamente stravolto. Le ragazze di allora volevano essere uguali ai maschi – e a volte ne hanno fatto le spese, ma questo gli ha permesso di aprire nuovi orizzonti all’identità femminile. E per quelle di noi che sono venute dopo: abbiamo potuto essere qualcosa di nuovo, perché potevamo vedere loro.

(Traduzione di Diana Corsini)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it