Non prendetemi in giro, ma sto cercando di imparare a correre. La colpa è di un programma recente della Bbc, Mind over marathon, che ha seguito un gruppo di persone, tutte con problemi di salute mentale, che si sono allenate per correre la maratona di Londra.
È stato un esempio di buona televisione, piena di umanità e appassionante, e tutti i partecipanti hanno dimostrato grandi doti di coraggio fisico e mentale, combattendo contro l’ansia e i dolori alle ginocchia, e legando tra loro e con il pubblico. Ha acceso in me un barlume di curiosità: chissà se anch’io sarei capace di correre? Mi sono sempre guardata bene dal farlo, e se ora ci provassi? Che cosa succederebbe?
Dato che con la mezz’età sono diventata prudente e avida di consigli, vado sul sito del servizio sanitario nazionale britannico (Nhs) che offre incoraggiamento ai terrorizzati principianti con una app che si chiama Couch to 5K (dal divano ai cinque chilometri). È un’app che t’insegna a correre cominciando con brevi tratti, e ti incita con la voce di un personaggio famoso a tua scelta. Scarico l’app, scelgo Jo Whiley, e mi faccio coraggio.
Prima settimana
Lunedì. Un minuto di corsa, seguito da 90 secondi di camminata, per un totale di 20 minuti. Cristo, è dura.
Mercoledì. Corsa 2. A metà strada mi rendo conto di aver fatto un gran casino con queste prime due corse, perché ho cominciato l’allenamento nella parte collinosa del nord di Londra, dove abito e la pendenza mi ha quasi ucciso. Ho anche imparato una lezione sulla gravità e sulla forza di attrazione esercitata dalla Terra. È consigliato un passo leggero, ma ogni volta che tocco terra sento un rumore sordo che non mi aspetto. Tremando, immagino un bicchiere d’acqua da qualche parte. E mi rendo conto che ho bisogno di musica.
Venerdì. Ho un nuovo piano, che prevede un breve tragitto in autobus fino al primo tratto di strada pianeggiante da usare come pista da corsa, in su e in giù. Ho anche fatto una playlist di Madonna, puntando sulla nota positiva e ottimista della dance. Il primo pezzo è Vogue, che comincia con quel “What are you looking at?” vagamente accusatorio, che mi ricorda che quando ho detto ai miei figli che andavo a correre, il più piccolo ha ribattuto: “Come, in pubblico? Dove la gente può vederti?”. Ora sono convinta che tutti mi stiano guardando.
Seconda settimana
Lunedì. Ancora autobus e playlist. La musica di Madonna ti dà una certa carica, e comincio ad atteggiarmi come lei, anche se dopo un po’ mi chiedo se in realtà non mi stia prendendo in giro da sola.
“Quicker than a ray of light” (Più veloce di un raggio di luce), mi canta nell’orecchio.
“Heavier than a sack of potatoes” (Più pesante di un sacco di patate), borbotto.
“Don’t stop me now, don’t need to catch my breath”(Non fermarmi ora, non ho bisogno di riprendere fiato).
Aspetta, però, Madge… uh… dammi un secondo… uh… ho solo bisogno di…
“And when the lights go down and there’s no one left/I can go on and on and on” (E quando le luci si spengono e non c’è più nessuno/ io posso andare avanti e avanti e avanti).
Io non ce la faccio ad andare avanti. Ma sì che ce la faccio.
Mercoledì. Intanto Jo Whiley mi incoraggia: “Prova a dirti: ‘Io adoro correre!’”. Banale, ma in realtà funziona. Dopo ogni 90 secondi di corsa ti interrompe con: “D’accordo, ora puoi rallentare e camminare per due minuti”. Mi rimetto a camminare, anche se non sono sicurissima che significhi rallentare. L’altro suggerimento è quello di distrarmi guardandomi intorno. Alzo gli occhi e guardo gli alberi, così flessuosi ed esuberanti in primavera, e penso a quell’incantevole citazione di Dennis Potter sul “più candido, spumeggiante e boccioloso dei boccioli mai esistito”. Poi comincia a piovere: è una pioggerella fine che si mescola al sudore, e per il momento mi sto divertendo.
Sabato. Ho finito la corsa numero tre e sto tornando a casa a piedi, quando una donna che arriva nella direzione opposta in tenuta da corsa e cuffiette mi ferma. Tira fuori il cellulare e mi fa vedere che l’ultima canzone che ha ascoltato, mentre correva i suoi cinque chilometri, è stata Come hell or high water, da un album degli Everything but the girl della metà degli anni ottanta. È una specie di ballata strappalacrime, e le chiedo se le sia stata d’aiuto. “Oh sì”, risponde, “mi ha ricordato quando ero al college e la cantavo con il disco, piangendo a dirotto”.
Be’, contenta lei, contenti tutti.
Terza settimana
Lunedì. Mi fa male il ginocchio. Ma male veramente. Sono in studio, oggi, e devo stare in piedi per incidere la voce solista, ma sono distratta da una pulsazione proprio sotto la rotula.
Mercoledì. Riposo. Ho preso un appuntamento con il fisioterapista. Avete presente quando mi prendevate in giro perché volevo mettermi a correre? Ecco.
(Traduzione di Diana Corsini)
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico New Statesman.
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