Si avverte un certo attrito fra le femministe più giovani e quelle più vecchie, provocato dalla recente comparsa dei movimenti #metoo e Time’s up e dalle reazioni negative di Catherine Deneuve e di Germaine Greer. Ho sentito donne mature che non capiscono perché una ragazza abbia definito la sua esperienza con l’attore Aziz Ansari come la notte peggiore della sua vita, e ho sentito donne giovani chiedere alle più anziane di farsi da parte o di tenere la bocca chiusa.
È sempre preoccupante quando gruppi di donne si contrappongono tra loro o si scagliano a vicenda calunnie e sospetti. Il momento che stiamo vivendo mi sembra decisivo: oggi le donne gridano “siamo incazzate nere e non ne possiamo più!”, e io non ho tempo per chiunque si metta in cattedra dicendo che ai suoi tempi era perfettamente capace di badare a se stessa. Un atteggiamento che nasce da un senso di vergogna e quasi di negazione, come se si dicesse “le botte non mi hanno fatto niente”.
Ondate naturali
Tuttavia questo gap generazionale non è una novità: ogni ondata di femminismo ha visto figlie schierarsi contro le loro madri spirituali e politiche, o in certi casi anche biologiche. Scriveva Rebecca Walker, figlia di Alice Walker e femminista della terza ondata, nell’ormai lontano 1995: “Le giovani femministe si accorgono di badare a come parlano per non turbare le anziane madri femministe. C’è senz’altro un divario tra le femministe che si considerano appartenenti alla seconda ondata e quelle che si definiscono della terza”.
Il mio femminismo si è formato verso la fine degli anni settanta, quando le mie eroine punk erano le Raincoats and Poly Styrene, e poi nei primi anni ottanta, all’università, dove leggevamo Kate Millett, Sylvia Plath, Audre Lorde e Charlotte Perkins Gilman.
Eravamo decisamente antiglamour, ferocemente polemiche e un po’ puritane. Per forza: avevamo letto Contro la nostra volontà di Susan Brownmiller, che nel 1975 definiva la cultura dello stupro “un processo consapevole di intimidazione per mezzo del quale tutti gli uomini tengono tutte le donne in uno stato di paura”.
Le femministe della terza ondata non trovavano niente da ridire sui club di spogliarello e sulla pornografia
La generazione seguita alla mia, quella degli anni novanta, mi ha provocato un bel po’ di confusione. Mentre un tempo, nella mia classe di letteratura femminista, buttavamo nella spazzatura Histoire d’O, le femministe della terza ondata non trovavano niente da ridire sui club di spogliarello e sulla pornografia, non avevano peli sulla lingua e non si lasciavano intimidire. Però hanno anche dovuto fare i conti con la cultura del “nuovo maschio”.
Certe volte somigliavano alla cool girl poi descritta da Gillian Flynn nel suo L’amore bugiardo, che, pur di ottenere l’approvazione dei maschi, emulava i rozzi comportamenti di certi uomini. Mi restava il dubbio. Magari quello era un femminismo nuovo e io ero una moralista. O magari era un’altra ondata di riflusso.
Più conoscenza e più ansia
Le mie figlie, ora ventenni, appartengono alla quarta ondata. A scuola hanno fondato un circolo femminista, a 15 anni sono andate a sentir parlare Malala Yousafzai, e siccome sono cresciute online, hanno avuto accesso a tutto un mondo di conoscenza e di esperienza. Non mi vergogno di ammettere che da loro ho imparato varie cose. La loro generazione mi sembra istintivamente più a suo agio con l’intersezionalità, e mi ha insegnato a usare termini come “non binario” e pronomi neutri ben prima che quel modo di parlare fosse adottato da un pubblico più vasto.
Però le mie figlie, per via dei selfie e di Instagram, sono anche più ansiose riguardo al loro aspetto esteriore di quanto lo fossi io, e si assoggettano a standard più elevati di cura della persona e di bellezza.
Noi degli anni settanta eravamo piene di peli e puzzavamo un po’, ma non importava, mentre le attuali pretese nei confronti delle donne mi sembrano impegnative fino allo sfinimento. Sono rimasta allibita leggendo su un giornale che le giovani non vanno neanche a farsi il pap test se prima non si sono fatte la ceretta. Ricordo che ai miei tempi il sottoporsi a un esame interno mi sembrava un rito di passaggio femminista. Non vergognarsi di mostrare quella parte del nostro corpo a un medico era un segno di liberazione, simile al suggerimento di assaggiare il proprio sangue mestruale, lanciato da Germaine Greer.
Ma allora era allora e oggi è oggi e siamo ancora tutte nella stessa barca. A volte non mi ricordo bene a quale ondata o a quale generazione appartengo. Penso di essere una baby boomer, il che significa che potrei facilmente aggiungermi a quelle che oggi liquidano cinicamente le millennial. Invece non voglio farlo. Le ascolto, e le trovo formidabili. Vi sembrerà una sdolcinatezza, ma io preferirei far confluire tutte le ondate in un grande oceano.
(Traduzione di Marina Astrologo)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.
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