Le rilevazioni periodiche di Iea e Ocse e lo studio sistematico di Robert J. Barrow e Jong Wha Lee su 140 paesi del mondo tra il 1950 e il 2010 non lasciano dubbi: lo sviluppo economico dei paesi è legato alla crescita dell’istruzione.
In questa, in parte grazie alle stesse fonti, riconosciamo il ruolo centrale dell’apprendimento di conoscenze e competenze nella lingua materna (o, meglio, nazionale), in matematica e scienze. Nelle analisi comparative restano però in ombra materie il cui apprendimento sia difficile da rilevare secondo standard internazionali o che sono molto specifiche delle distinte culture nazionali. Ma non perciò vanno credute irrilevanti, dall’educazione fisica e motoria agli studi classici, su cui insiste Nussbaum.
Tra le materie mal comparabili c’è lo studio delle lingue straniere. Serve? Paesi che sono stati e sono leader dello sviluppo economico e produttivo si segnalano per livelli assai bassi di conoscenza di lingue straniere, da Stati Uniti e Regno Unito a Giappone e Cina. Allora studiarle è un lusso?
Mah Aissata Fofana, autrice d’un dizionario bambara-italiano, afferma (Internazionale 853): “Chi non sa le lingue straniere non sa niente della propria”. L’affermazione ha dalla sua qualche indizio oggettivo e grandi autorità, da Giacomo Leopardi ad Antonio Gramsci.
Ma c’è anche una seconda grande motivazione: favorire la conoscenza di altri popoli e culture, fattore centrale nella proposta educativa di don Milani e di ogni scuola di ispirazione democratica.
Internazionale, numero 855, 16 luglio 2010
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