Appoggiare o no la spinta a informatizzare e a dotare di nuove tecnologie insegnamenti, scuole, università? La questione è centrale sotto il profilo educativo, ma ha anche evidente rilevanza nei bilanci pubblici e per le industrie del settore. Bill Keller, ex direttore del New York Times, nello stesso giornale (3 ottobre 2011) esamina con simpatia una nuova iniziativa di Sebastian Thrun, esperto di intelligenza artificiale e robotica e professore a Stanford.

Questa grande università primeggia non solo nelle solite classifiche internazionali, ma anche in classifiche meno note che guardano soprattutto alla effettiva vita e crescita delle capacità degli studenti dei campus. A Stanford il campus conta molto, ma Thrun ha avviato, con grandi mezzi, un’università a distanza: gli studenti se ne stanno a casa davanti a un portatile, minimi i costi d’accesso, grande la qualità dei docenti e, pare, grande successo.

Keller è cauto, come cauto era un precedente lungo articolo di Matt Richtel, “Grading the digital school: in classroom of future, stagnant scores” (3 settembre 2011). La rassegna di molti casi concreti porta a condividere le conclusioni cui è giunta un’agenzia educativa indipendente, McRel, cioè Mid-continent re­search for education and learning: l’insegnamento via computer potenzia nel bene e, però, anche nel male quel che accade in una classe. È prezioso per insegnanti bravi, ma in mano ai mediocri ha effetti nulli o perfino pessimi.

Internazionale, numero 919, 14 ottobre 2011

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