Amaya Moro-Martín, giovane astrofisica spagnola, studia sistemi planetari extrasolari. Ora lascia Madrid e va o meglio torna negli Stati Uniti. In agosto il suo caso ha suscitato l’attenzione della grande stampa europea e americana. Ma già nell’ultimo anno El País la aveva ospitata come promotrice di due lettere aperte collettive indirizzate a Mariano Rajoy, capo del governo: centotrentamila firme per chiedere rispetto per la dignità della scienza (comprese le humanidades). Nessuna risposta.
Amaya si è laureata in Spagna, poi ha chiesto una borsa alla Nasa e ha avuto un posto. C’è restata dieci anni. Tre anni fa ha sperato di poter tornare in patria: la legge spagnola sul rientro dei cervelli prometteva che il trespolo precario di prima accoglienza si sarebbe trasformato in breve nel bando di un concorso per un posto stabile che prevedesse il suo profilo. Nessuna certezza, ma un’occasione.
Amaya è tornata e ha preparato con cura la documentazione richiesta: 750 pagine di certificazioni varie. Non c’era più abituata: altrove, nel mondo degli studi, basta qualche pagina di curriculum e di progetto, qua e là un colloquio talora pubblico, spesso severo, e si è o non si è assunti. I mesi sono passati e diventati anni. Del concorso previsto dalla legge nessun traccia. Solo tagli alla ricerca. Amaya è tornata a bussare alle porte della Nasa che è stata ben lieta di riprendersela. Lei ha impacchettato le carte e le ha spedite al capo del governo con una lettera amara, stavolta firmata solo da lei.
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