Il prestigio delle università degli Stati Uniti è giustificato? Certo che lo è, se si guarda a quello cui guardano le classifiche internazionali, laboratori, biblioteche, strutture, docenti con premi Nobel.
Da anni, però, Washington Monthly, Cnn Money e altri organi utilizzano le minuziose indagini annuali di Ccsse (Community college survey of student engagement), che guardano alla didattica reale, a vita e formazione effettiva degli studenti: le università in cima alla lista delle eccellenze nei soliti
ranking internazionali, tranne Stanford, sono scavalcate da università poco note. Nelle università più celebri la formazione costa molto e conta poco. Lo si ricava anche dall’indagine Telco presentata a ottobre da Fiorella Kostoris sui livelli di competenze fondamentali dei laureandi italiani: risultano bassi a confronto con i livelli di studenti coreani, giapponesi e nordeuropei, ma all’incirca pari agli statunitensi.
L’Economist (5 aprile) e il giurista controcorrente Glenn Harald Reynolds con il libro The higher education bubble toccano un altro punto ancora: in termini di retribuzioni future laurearsi conviene, ma costa troppo. Nei casi migliori ci vogliono vent’anni per ripagare i sessantamila dollari all’anno degli studi universitari e portare a casa più dollari d’un diplomato. La bolla educativa è prossima a esplodere perché sempre di più i laureati non saranno in grado di ripagare i debiti contratti per studiare. Università ricche e celebri, studenti modesti alla bancarotta.
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