Pochi giorni dopo l’attentato a Charlie Hebdo nei mezzi d’informazione francesi sul banco degli imputati è finita la scuola, come documenta La Toile de l’éducation di Le Monde del 28 gennaio. I due attentatori, Chérif e Said Kouachi, la scuola l’avevano attraversata tutta fino alle superiori. Come mai non avevano assorbito lo “spirito repubblicano”? Come mai i fratelli Koua­chi non si erano educati allo “spirito civico”? Queste domande presuppongono che la scuola sia un allevamento intensivo, che lavori separata dal resto del mondo, versando nozioni, competenze e valori nelle teste, in modo da ottenere il più rapidamente possibile il massimo di prodotti rispondenti alle esigenze del mercato. Se dei prodotti presentano difetti la colpa è degli allevatori e delle procedure di produzione.

Quest’idea nella realtà è sbagliata: gran parte degli insegnanti non vorrebbe mai adattarsi a essa, e gli alunni non sono polli in stie asettiche ma giovani umani che vivono gran parte del loro tempo nello spazio sociale e culturale e portano nelle aule tutto ciò che ne deriva. Nella discussione in atto solo alcuni, come François Fourcade o Marcel Gauchet, sottolineano con nettezza che la scuola nel suo operare dipende largamente da variabili esterne, può far molto per sanare fratture e guasti della vita sociale se però a ciò pone mano l’intera società. Se fuori dell’aula nella vita dei Kouachi e di tanti altri restano rupture, chaos et drames, la scuola da sola non può risanarli.

Questo articolo è stato pubblicato il 5 febbraio 2015 a pagina 94 di Internazionale, con il titolo “Il caos e le stie”. Compra questo numero | Abbonati

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