Il 30 aprile un tribunale pachistano ha condannato dieci terroristi coinvolti nell’attentato del 2012 contro Malala Yousafzai, allora quindicenne. Il caso di Yousafzai o la strage nella scuola pubblica di Peshawar nel dicembre 2014 o le imprese del gruppo Boko haram in Nigeria hanno avuto grande eco nell’informazione e si lasciano facilmente inquadrare nel diffuso stereotipo antislamico. Ma la cosa è più complicata. Dall’islam stesso, anche da gruppi fondamentalisti, arrivano condanne e sconfessioni. E soprattutto si osserva che le aggressioni terroristiche ad alunni e alunne, insegnanti, edifici scolastici, non rare dagli anni settanta del novecento, si sono ormai diffuse e intensificate in molte parti del mondo.
Nel 2014 un rapporto del National consortium for the study of terrorism ha elencato 110 paesi in cui tra il 1970 e il 2013 ci sono stati 3.400 attacchi a scuole. I numeri di alcuni paesi, dalla Colombia alla Russia, sono impressionanti. Il fenomeno è globale. Censirlo e capirlo è dal 2010 la missione della Global coalition to protect education from attack (Gcpea). È giusto individuare le differenti cause prossime che armano la mano di terroristi, dai narcotrafficanti alle minoranze oppresse o ai fondamentalisti. Ma una causa prima e comune forse c’è. L’istruzione dà comunque strumenti di libertà, incrina equilibri tradizionali. Proprio questo la rende invisa a chi campa su diseguaglianze, servitù, ignoranza. E forse non si tratta solo dei terroristi.
Questo articolo è stato pubblicato l’8 maggio 2015 a pagina 94 di Internazionale, con il titolo “Guerra mondiale all’istruzione”. Compra questo numero | Abbonati
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