Il 20 giugno, giornata mondiale dei rifugiati, mi sono seduta con lo chef siriano Mohammad el Khaldy all’aperto, sotto il sole di Parigi. Mi ha raccontato la sua storia e io l’ho appuntata sul mio quaderno.

“Parte da Damasco nel 2012, moglie libanese, tre figli piccoli, valle della Bekaa, problemi con le autorità libanesi, si trasferisce al Cairo (senza famiglia), apre un ristorante accanto a piazza Tahir”.

“Problemi con il visto, dopo Al Sisi le autorità egiziane revocano il visto, proprietario mette i sigilli al ristorante, opportunità in un ristorante di Marrakesh ma sarebbe dovuto entrare in Marocco clandestinamente, coinvolto in un altro progetto di ristorazione al Cairo”.

“Moglie e figli lo raggiungono dopo separazione di due anni ma viene escluso di nuovo dai partner egiziani consapevoli che, a causa del suo status dubbio, non avrebbe potuto opporsi. Vende mobili e prende in prestito denaro”. “Mia moglie ha detto: no, stiamo insieme”.

“13 luglio 2014 si imbarca ad Alessandria, avanti e indietro per quattro giorni tra le acque di Alessandria e quelle libiche. Ogni giorno salgono in barca cento persone in più”. “Per fare spazio alla gente abbiamo buttato in mare tutto quello che potevamo, anche il sonar”.

“750 persone sulla barca. 12 giorni. Datteri, acqua”. “Cibo finito in sette giorni”. Finalmente una nave container li avvista, si avvicina e consegna acqua, latte per i bambini, pane, mortadella, pesce in scatola, trasmette la loro posizione alla marina italiana. Giubbotti di salvataggio, mare mosso, due giorni su una nave della marina per arrivare in Italia, ospitati in una palestra, “hanno cucinato per noi”.

“La polizia arriva la mattina, biglietteria degli autobus chiusa, sindaco molto gentile apre la biglietteria. Autobus per Roma, treno per Milano, dormito in stazione, cugino in Danimarca, 28 siriani in gruppo sul treno per Amburgo, poi Copenaghen, fino all’estremo nord della Danimarca. ‘Per un anno ho lavorato come traduttore, autista del campo’. Richiesta d’asilo respinta. In Germania. Fratello a Parigi. Arriva a Parigi nell’ottobre 2015. Centro d’accoglienza. Dopo sei mesi richiesta d’asilo in Francia accettata”.

È una storia a lieto fine che scalda il cuore di tutti i liberali, ma non voglio scrivere il solito articolo su un rifugiato

Negli ultimi anni ho ascoltato storie simili molte volte. I dettagli cambiano, ma il modello è sempre lo stesso: una spola avvilente tra confini chiusi, passaporti scaduti, soldi che finiscono, lavoro nero, sfruttamento, separazione dalle famiglie, trafficanti, uno spaventoso viaggio su un barcone, burocrazia, documenti, sempre alla mercé della gentilezza e della cupidigia di estranei.

A Damasco, Mohammad gestiva un ristorante di successo. Quando si è stabilito con la famiglia a Parigi non aveva più un soldo. Ha partecipato al primo Festival mondiale dei profughi, nel 2016, creando un menu siriano e cucinando insieme al grande chef basco Stéphane Jégo nel suo ristorante L’Ami Jean. Con l’aiuto di alcuni conoscenti e l’incoraggiamento di molti chef francesi, Mohammad ha creato una impresa di catering che cucina per marchi come Kenzo durante la settimana della moda e al Palais de Tokyo.

È una storia a lieto fine che scalda il cuore di tutti i liberali, ma non voglio scrivere il solito articolo su un rifugiato, con tutto l’inevitabile bagaglio di sofferenze e opere di bene. Però non voglio nemmeno negare il dolore e la difficoltà del viaggio e dell’esilio di Mohammad. Quello che voglio dire è che lo status di rifugiato non definisce Mohammad così come non dovrebbe definire nessuna persona costretta a lasciare il proprio paese.

Cultura sofisticata e ossessiva
“Ok, ora parliamo di cibo”, ho detto a Mohammad. Sul suo volto è comparso un sorriso.

“A essere onesti”, ha cominciato con aria circospetta, “quella che i francesi chiamano alta gastronomia – ingredienti di qualità seguendo le stagioni – in Siria è cibo quotidiano”. La cucina siriana ha una straordinaria tradizione alimentare che affonda le sue radici nelle influenze regionali – ottomana, armena, circassiana, curda – e una cultura del cibo sofisticata e ossessiva quanto quella giapponese. Il foie gras, il pesce fresco dell’Atlantico e la pasticceria francese hanno impressionato Mohammad, ma ci tiene a sottolineare che “gli europei non sanno nulla di spezie ed erbe”.

Diversi giorni dopo il nostro primo incontro, nell’ambito degli eventi della settimana del rifugiato ho partecipato a una cena preparata da Mohammad alla sede parigina del Refettorio, la rete di cucine per i poveri fondata da Massimo Bottura, chef dell’Osteria Francescana di Modena, inserita nuovamente al primo posto nella lista dei 50 migliori ristoranti del mondo (così come ci sono festival culinari dei rifugiati in dieci città del mondo, ci sono anche Refettori che servono piatti cucinati da volontari e chef a Milano, Parigi, Londra e Rio de Janeiro).

Le mani del cuoco
Il Refettorio di Parigi si trova all’interno di una cripta sovrastata da archi di pietra nella chiesa della Madeleine. Mohammad è arrivato al mattino senza sapere che ingredienti sarebbero arrivati per cucinare. Abbiamo cominciato con un amuse-bouche di fegato di pollo con humus e semi di melograno. Poi ci hanno servito un piccolo piatto che conteneva una singola patata intera, senza decorazioni.

Ho tagliato la patata con curiosità esitante. Diversamente da quanto mi aspettavo era fredda, ma anche saporita e burrosa, speziata e con un gusto vivace di qualcosa che non sono riuscita a identificare. Era talmente deliziosa che ne ho mangiata mezza prima di rovesciarla e scoprire che Mohammad aveva riempito la parte di sotto con un mirepoix di mele. Un piatto fantastico e un gioco di parole, ma solo per chi conosce il francese: pomme de terre avec des pommes, patata alle mele.

Poi siamo passati a un petto d’anatra con melokhia, una piatto vellutato a base di ortaggi. La portata era liberamente ricoperta di sommacco, la cui acidità illuminava e schiariva il gusto del piatto in un modo che faceva sembrare oppressiva e invadente la salsa dolciastra alla frutta solitamente abbinata all’anatra. Il dessert era un nido di capellini con una quenelle di gelato all’arancia e un foglio croccante di pasta fillo con la forma di un uccellino svolazzante, servito su piatti con l’immagine delle mani di Massimo Bottura raccolte in un gesto a metà tra l’offerta e la supplica.

Mohammad mi ha racontato di aver servito la sera prima la stessa cena ai senzatetto del refettorio e di essere rimasto commosso dalla loro gratitudine e dal loro stupore. “La Francia è rappresentata dalle mani che hanno dato stabilità a me e alla mia famiglia”, mi ha spiegato presentandomi la moglie e i tre figli maschi. “Il nido è la nostra casa e l’uovo è la nostra nuova bambina”. Sua figlia, minuscola, sorrideva tra le sue braccia.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul mensile britannico Prospect.

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