Per chi come me ha meno di quarant’anni, l’Organizzazione degli stati americani (Oea) è solo la sigla di uno slogan ripetuto fino alla noia. “Con o senza l’Oea, vinceremo la nostra battaglia”, gridavano i nostri genitori nel gennaio del 1962, quando l’organismo regionale sospese il governo cubano.
Da quel momento i nostri giornali cominciarono a spiegarci di come l’organizzazione si fosse trasformata nel “covo del capitalismo”, mentre elencavano i vantaggi della nostra vicinanza al patto di Varsavia.
Ma l’alleanza con i paesi dell’Europa orientale ha avuto vita più breve dell’Oea. Il 3 giugno, durante la sua trentanovesima sessione, i rappresentanti dei paesi latinoamericani e degli Stati Uniti hanno votato all’unanimità per la riammissione di Cuba.
La decisione è stata presa nell’ambito della nuova politica di distensione, che punta a reintegrare l’isola più grande delle Antille nel panorama regionale e mondiale. Ma la volontà dei paesi membri dell’organizzazione non è bastata, perché l’ultima parola spetta all’Avana.
La bandiera cubana non è mai scomparsa dagli incontri dell’Oea. Il messaggio era chiaro: non era stato espulso il popolo cubano, ma solo i suoi rappresentanti. Gli stessi leader che quarantasette anni fa furono esclusi ora hanno deciso di non accettare la proposta di riammissione, come hanno annunciato in un comunicato pubblicato sul quotidiano Granma.
Il motivo è semplice: i leader dei paesi americani che cinquant’anni fa votarono per la sospensione di Cuba sono ormai morti o in pensione; i nostri governanti, invece, sono sempre gli stessi. E serbano ancora i loro vecchi rancori.
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