Di solito un intervistato non si lamenta perché un giornalista ha interpretato le sue dichiarazioni alla lettera. Spesso succede il contrario: per negligenza o malafede si omette o si fraintende quello che qualcuno dice chiaramente. Per questo, anche se Fidel Castro ci ha abituati a considerarlo diverso dai comuni mortali, ci siamo sorpresi quando abbiamo letto la sua smentita. Castro ha spiegato che, confessando al giornalista Jeffrey Goldberg che “il modello cubano non funziona più neanche per noi”, in realtà sosteneva il contrario.

Come se fossero ragionamenti che si escludono a vicenda, quello che un tempo fu un grande argomentatore ha confutato l’interpretazione che il giornalista ha dato alle sue parole. “La mia idea, come tutti sanno, è che il sistema capitalista non funziona più negli Stati Uniti né nel mondo”, ha spiegato. “Come potrebbe funzionare un sistema del genere in un paese socialista come Cuba?”.

Quelli che come me hanno letto l’intervista di Goldberg e poi hanno ascoltato gli equilibrismi verbali del líder máximo nell’aula magna dell’università sono rimasti molto confusi. Lo sconcerto suscitato a Cuba da queste dichiarazioni somiglia a quello di un uomo che, dopo essere stato sposato per cinquant’anni, viene a sapere che sua moglie ha detto a un’amica che il suo matrimonio non funziona. Quando l’uomo le chiede spiegazioni, la moglie risponde: “In realtà il matrimonio che non funziona è quello della coppia che vive di fronte a noi… chi potrebbe pensare che io voglia sposarmi con il marito della mia vicina?”.

Non so bene a chi affidare l’analisi di questa vicenda, se a un filosofo perché smonti il sofisma, a un linguista perché organizzi meglio le parole o a uno psicoterapeuta perché sveli l’atto mancato che si nasconde dietro i chiarimenti del comandante. Per chi come me è nato e cresciuto nell’esperimento sociale che lui ha cercato di creare a sua immagine e somiglianza, questa autocritica ha avuto il gusto amaro di una beffa. Dopo averla sentita, ho scritto un messaggio su Twitter: Fidel Castro passa all’opposizione. Un amico che ha letto il mio tweet mi ha chiamato subito per confessarmi che “se Lui è diventato un dissidente, allora io sosterrò il governo”. Noi cubani abbiamo vissuto così l’ultima settimana, tra scherzi di questo tipo, reazioni di sorpresa e sarcasmo sulla salute mentale del tenace oratore.

Perfino la preoccupazione per i problemi economici e per l’imminente licenziamento di quasi il 25 per cento della forza lavoro del paese è passata in secondo piano. Nessuno ha potuto rimanere impassibile di fronte a uno scivolone verbale così clamoroso.

Da quando si è allontanato dalle sue responsabilità ufficiali per ragioni di salute, Fidel Castro parla poco del paese e dei suoi problemi. Spesso pubblica riflessioni su questioni ambientali e sul pericolo di una guerra nucleare. Dopo la sua recente “risurrezione” ha cominciato ad apparire in pubblico e a impugnare il microfono che per cinquant’anni è stato il suo strumento di lavoro preferito. Nei quattro anni di lontananza dal potere non ha dedicato neanche una frase al modo in cui suo fratello Raúl governa il paese e questa equivoca allusione al funzionamento del modello cubano è la prima che fa dopo avere evitato l’argomento per molto tempo.

Goldberg non ha scritto che Castro raccomandava il capitalismo statunitense per Cuba. Si è limitato a trascrivere la frase controversa, che lo stesso ex presidente ammette di aver pronunciato “senza amarezza né preoccupazione”. Che senso hanno queste enigmatiche quattro parole? Perché avrebbe dovuto esserci amarezza o preoccupazione nel cuore del líder máximo all’idea che il capitalismo non funzionava più? L’amarezza è quella che oggi sentono i familiari dei cubani che sono morti cercando di esportare il modello dell’isola in altri paesi, quelli che hanno rinunciato ai piaceri della gioventù sacrificando i migliori anni della loro vita perché il modello funzionasse, e anche gli onesti membri del partito, espulsi per aver fatto critiche molto meno aggressive di queste. O chi ha perso il lavoro per un commento inopportuno, chi è finito dietro le sbarre per essersi opposto al regime, insomma, chi ha avuto la lucidità di rendersi conto che le cose andavano male, l’ha detto in buona fede e in cambio ha ottenuto solo una punizione smisurata.

Tutti hanno diritto a sentirsi frustrati e soprattutto presi in giro dagli irresponsabili che, dandosi arie da saggi chiaroveggenti, hanno marciato indicando una strada che non portava da nessuna parte, e che ora temono che i sentieri alternativi li spingano in un vicolo cieco o nel peggiore dei casi al punto di partenza – orrore! –, al passato capitalista.

La preoccupazione è di tutti noi che viviamo sull’isola: ci rendiamo conto che siamo un paese senza un programma, in cui eufemismi come “perfezionare” o “aggiornare” il sistema non riescono a spiegare dove stiamo andando, anche se conosciamo a memoria l’utopia che non siamo mai riusciti a raggiungere.

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