Il libro era foderato con una di quelle riviste piene di colori e povere di verità che cercano di convincere i turisti dei vantaggi dell’utopia cubana. Lo leggeva un ragazzino – gli stavano spuntando i primi baffi – e, nonostante i sobbalzi dell’autobus e le persone che si frapponevano tra me e quelle pagine, l’ho riconosciuto: era La guerra della fine del mondo di Mario Vargas Llosa, che pochi giorni fa ha ricevuto il Nobel per la letteratura.
A Cuba coprire la copertina dei libri censurati è stato un trucco che per anni ci ha permesso di sfogliare in luoghi pubblici gli autori esiliati dalle librerie ufficiali.
Dimostrare una cultura letteraria all’Avana oggi non significa conoscere Alejo Carpentier o Julio Cortázar, ma aver tenuto tra le mani un libro di Reinaldo Arenas, Herta Müller o Guillermo Cabrera Infante. La seduzione degli espulsi è infinitamente più grande di quella degli scrittori autorizzati. Abbiamo letto Vargas Llosa non solo per il suo talento di narratore o per l’arguzia dei suoi articoli, ma anche come gesto di ribellione.
Non c’è legame più forte tra un autore e i suoi lettori di quello che si stabilisce nella clandestinità. Un po’ di paura di essere scoperti ci rimarrà sempre di fronte all’opera di Mario Vargas Llosa, ma gran parte del timore si sta dissipando. Da un po’ di tempo ho notato che alcune persone più coraggiose leggono i suoi romanzi, senza foderare la copertina, nei parchi, in ufficio o nelle aule universitarie.
*Traduzione di Sara Bani.
Internazionale, numero 868, 15 ottobre 2010*
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