La risata e lo sberleffo sono terapie di gruppo a Cuba. Qui la frustrazione è esorcizzata con l’umorismo. Ridiamo di noi, ma anche di chi ci governa, nell’intimità della famiglia o nella cerchia ristretta degli amici.

Inventiamo dei soprannomi, cerchiamo buffe analogie tra i personaggi pubblici e raccontiamo barzellette. Insomma, ci sganasciamo dalle risate anche se avremmo più motivi per piangere che per essere contenti. Questa vocazione nazionale alla battuta si manifesta anche in Pepito, un eterno scolaro che pone domande scomode.

Il bambino, dalla lingua affilata e le tasche bucate, è il personaggio principale di molti dei nostri racconti satirici. Le sue storie circolano in clandestinità, passando di bocca in bocca. Sento parlare di questo bambino immaginario da quando ho l’uso della ragione. Pepito è andato sulla Luna quando l’Unione Sovietica e Cuba hanno lanciato la loro prima missione nello spazio, è stato a fianco di papa Giovanni Paolo II durante la sua visita all’Avana ed è entrato nel bunker segreto in cui Fidel Castro ha passato la convalescenza. È stato ovunque e in nessun luogo.

Ma proprio quando pensavamo che non ci avrebbe mai abbandonati, Pepito ha cominciato a languire. Oggi è difficile sentire qualche nuova storia su di lui. Io mi sveglio ogni mattina sperando nel suo ritorno. Prima o poi le battute torneranno nelle nostre vite sotto forma di un bambino ribelle che non ha rispetto di niente e di nessuno.

*Traduzione di Sara Bani.

Internazionale, numero 871, 5 novembre 2010*

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