Bere una tazza di caffè la mattina è l’equivalente nazionale della colazione. Possono mancare il pane, il burro e anche l’irraggiungibile latte, ma un risveglio senza questa bevanda calda e stimolante lascia presagire una brutta giornata.
Quand’ero bambina tutti gli adulti che mi circondavano bevevano tazze su tazze di caffè mentre chiacchieravano: il rito di condividere un caffè era importante come abbracciare qualcuno o invitarlo a entrare in casa.
Qualche settimana fa Raúl Castro ha annunciato che il caffè del mercato razionato sarà mescolato con altri ingredienti. È stato buffo sentire un presidente parlare di argomenti culinari, ma a noi cubani ha fatto anche ridere il fatto che ci spiegasse una prassi comune da anni nell’isola.
Non solo alteriamo da tempo la più importante bevanda nazionale, ma lo stato ci ha anche superato in furbizia senza dichiararlo sull’etichetta del prodotto. Non si potrà più usare l’aggettivo “cubano”, perché non è un segreto che il paese importa caffè dal Brasile e dalla Colombia.
A Cuba la produzione annuale di caffè è scesa da 60mila tonnellate a seimila. Negli ultimi mesi “il nettare nero degli dèi bianchi”, come una volta l’hanno definito gli indigeni, ha cominciato a scarseggiare. Le casalinghe hanno ricominciato ad aggiungere piselli tostati e macinati per garantire il goccetto amaro al risveglio.
Non sappiamo se si può ancora chiamare caffè, ma almeno è qualcosa di caldo da bere la mattina.
*Traduzione di Sara Bani.
Internazionale, numero 881, 21 gennaio 2011*
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