Sono le sette di mattina e la fermata dell’autobus è affollata. Un veicolo diretto verso il centro passa senza fermarsi, trascinandosi dietro una scia di grida e gesti di rabbia. Alcuni decidono di andare a piedi, altri si rassegnano e spendono i loro ultimi dieci pesos per un taxi collettivo. Anche oggi molti passeggeri frustrati non riusciranno ad arrivare in tempo sul posto di lavoro.

Non è una scena isolata: in ogni quartiere le lunghe code per i trasporti fanno parte del paesaggio urbano, al punto che ormai la città è inimmaginabile senza una folla accalcata intorno a un cartello che indica la fermata del P1 o del P14, gli autobus diretti all’aeroporto e al Vedado.

Le difficoltà di spostamento tengono in scacco il paese. La paralisi di movimento incide negativamente sulla vita produttiva e imprenditoriale del paese, e le perdite economiche sono incalcolabili. Ne risentono anche lo sviluppo professionale, i rapporti familiari e di coppia. Cento chilometri diventano un abisso difficile da attraversare, se l’unico modo per raggiungere l’altro lato è un mezzo di trasporto senza orari fissi e in pessimo stato.

L’inefficienza e il centralismo ci hanno condannato a muoverci come nel medioevo. Ecco perché l’immagine di un carro trainato dai cavalli è diventata ricorrente. È lontana l’illusione – così viva negli anni del sussidio sovietico – di una metropolitana e remoti sembrano anche i giorni in cui, in anticipo sulla Spagna, costruimmo la nostra prima ferrovia.

*Traduzione di Sara Bani.

Internazionale, numero 883, 4 febbraio 2011*

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