Fin da piccola ho capito che i cubani potevano iscriversi solo alle organizzazioni fondate dal governo, ma erano puniti se decidevano di creare gruppi per iniziativa personale. I bambini entravano nei pionieri, le donne dopo i 14 anni diventavano federate, i vicini di quartiere formavano i comitati di difesa della rivoluzione, mentre i lavoratori s’iscrivevano all’unico sindacato autorizzato del paese.
Gli studenti avevano una loro confederazione e i contadini facevano parte di un’unica associazione a livello nazionale. Quando qualcuno chiedeva un posto di lavoro, voleva iscriversi all’università o comprare un elettrodomestico doveva riempire dei moduli in cui era richiesta l’appartenenza alle organizzazioni consacrate dal potere. Mi viene da ridere a ripensarmi con una matita in mano mentre segnavo con una crocetta la mia appartenenza a fianco di associazioni come l’Organizzazione dei pionieri José Martí, il Comitato di difesa della rivoluzione o la Federazione delle donne cubane. Volevo far credere di essere una cittadina “normale”.
Da anni non pronuncio uno slogan e non appartengo a nessuna associazione autorizzata. Quando me lo chiedono dico che sono una cittadina indipendente o un elettrone libero e che mi limito a chiedere la depenalizzazione del disaccordo. A Cuba è ancora tabù criticare un ministro o l’orario delle lezioni di una scuola, pensare che sia possibile fondare un partito o semplicemente il club degli amici delle salamandre.
*Traduzione di Sara Bani.
Internazionale, numero 888, 11 marzo 2011*
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