Agli occhi degli osservatori esterni, e dei cittadini europei, l’Unione europea si sta trasformando in un soggetto grottesco. È una mutazione lenta ma inesorabile.
I fatti dimostrano senza ambiguità che l’Unione di oggi è lontana dalla logica politica e dai princìpi sui quali si fondava, sedici anni fa, la “promessa di Salonicco”: il futuro dei Balcani occidentali doveva essere nell’Unione europea.
La scorsa estate la cancelliera tedesca Angela Merkel e il primo ministro ungherese Viktor Orbán hanno commemorato il 19 agosto 1989, giorno in cui l’Ungheria — allora dietro la cortina di ferro — lasciò uscire 700 profughi della Germania dell’Est in viaggio verso l’Austria e la libertà. Poco dopo cadde il muro di Berlino. In questi ultimi anni Orbán è sempre stato un appassionato oppositore della “irresponsabile politica di apertura verso i profughi” di Merkel.
Tuttavia, in occasione delle celebrazioni del 1989, il primo ministro ungherese – che, va ricordato, ha fatto costruire muri nel suo paese per non far entrare gli immigrati – ha esplicitamente lodato la leader tedesca. In risposta alla smielata insistenza di Orbán sull’attaccamento delle due nazioni ai “valori europei”, Merkel ha sostenuto che l’Europa sarà veramente unita solo quando tutti i paesi dei Balcani occidentali faranno parte dell’Ue.
Ma poiché le vecchie promesse sono sempre più in dubbio, nei Balcani queste dichiarazioni sono state accolte con scetticismo.
Nel 2003 a Salonicco l’atteggiamento nei confronti dei Balcani occidentali era di grande ottimismo e non si basava su convinzioni politiche, ma su criteri, chiari e indiscutibili, per la candidatura e l’adesione di un paese all’Unione europea. Allora vale la pena ricordare l’amara dichiarazione di un deputato della sinistra tedesca citata dai giornali europei l’anno scorso: la stessa Unione oggi non soddisferebbe i criteri per la sua adesione.
Lo stato dei rapporti tra l’Ue e i Balcani occidentali mette in luce un serio rallentamento nei processi di adesione. Le ragioni sono due. In primo luogo ci sono le questioni interne, che hanno alimentato una sorta di dinamica politica “controeuropea”; poi c’è, da parte europea, una certa incomprensione, mischiata a ignoranza e a errori di giudizio, rispetto alla realtà dei Balcani e alla natura dell’ostilità locale ad avviare le riforme e a progredire sulla via dell’integrazione europea.
La logica che muove i nuovi leader regionali nazionalisti e corrotti è semplice: ogni passo verso l’Unione rappresenta un passo verso la perdita del potere che detengono grazie alla cattiva gestione, allo sfruttamento delle posizioni, alla corruzione e a uno stato paralizzato.
I limiti del processo di Berlino
Nell’ultimo decennio il tentativo più serio per l’integrazione dei paesi balcanici è stato il cosiddetto processo di Berlino, la cui prima conferenza si è tenuta nella capitale tedesca il 24 agosto 2014.
In questi anni dieci paesi dell’Unione – inizialmente Austria, Croazia, Germania e Slovenia, seguiti da Francia, Italia, Regno Unito, Polonia, Grecia e Bulgaria – si sono impegnati formalmente per lo sviluppo e l’integrazione dei Balcani.
L’obiettivo dell’iniziativa è sostenere i paesi dei Balcani occidentali – Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Serbia e Montenegro – nel processo di adesione all’Ue, nonché incoraggiare una più stretta cooperazione regionale.
L’entusiasmo iniziale, tuttavia, si è raffreddato poco dopo il primo vertice dell’iniziativa, quando l’allora neoeletto presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, aveva chiarito che durante il suo mandato non ci sarebbero stati ulteriori allargamenti. A quel punto per le élite politiche della regione il processo è diventato una questione interna. In Europa, invece, l’attenzione si è rivolta ad altri problemi irrisolti, rispetto ai quali i Balcani non erano una priorità.
Non si è insistito abbastanza sullo stato di diritto come requisito fondamentale per i futuri candidati e i nuovi membri
Guardando con il senno di poi ai cinque anni del “processo di Berlino”, sembra chiaro che l’obiettivo non fosse un coinvolgimento più ampio dei paesi balcanici nelle strutture interne e nell’organizzazione dell’Unione. Al contrario, lo scopo era quello di valutare la loro aderenza formale e tecnica ai princìpi dell’Ue e di garantire che i requisiti per entrare nella famiglia europea fossero soddisfatti sulla carta.
Troppo spesso la distanza dalla realtà balcanica è stata volutamente trascurata. Durante le riunioni che hanno segnato il “processo di Berlino” non si è insistito abbastanza sullo stato di diritto come requisito fondamentale per i futuri candidati e i nuovi membri. Il rispetto dello stato di diritto è tradizionalmente una pietra angolare dei processi democratici nei paesi che hanno una lunga tradizione in materia di società civile e di rispetto del senso dello stato.
Purtroppo, questo sembra valere per l’Europa ma non per i Balcani. In questa regione le caste al potere si sono create uno spazio di manovra tutto loro, in particolare nei paesi nati dalla disgregazione della Jugoslavia. Molti governi si sono formalmente impegnati ad accelerare le riforme, a risolvere le controversie bilaterali, a progredire nella riconciliazione e ad approfondire la cooperazione regionale. Ma per anni l’incapacità di comprendere i princìpi elementari dello stato di diritto e del rispetto delle istituzioni è stata sottovaluta dagli occidentali.
Gli esempi sono diversi in ciascuno dei paesi che aspirano a entrare nell’Ue. Ma c’è un comune denominatore: lo stato di diritto è sempre fortemente incompleto, sistematicamente disfunzionale e deliberatamente trascurato. Sulla questione, purtroppo, le risposte dell’Unione non sono state all’altezza. L’attenzione di Bruxelles si concentra sull’economia, i profitti e il mercato. E in questo senso i Balcani non hanno un’importanza prioritaria. La natura dei problemi della regione – legati principalmente a questioni storiche, nazionali e religiose – è spesso fraintesa. Ma è su queste basi che si devono cercare le soluzioni, non limitandosi a valutare il rispetto formale delle regole.
Progressi bloccati
La crisi in Bosnia Erzegovina nasce dai problemi derivanti da una società disintegrata. In questo stato plurinazionale e multireligioso le relazioni interne sono dominate da animosità, conflitti e disaccordi alimentati di proposito. A più di un anno dalle elezioni dell’ottobre 2018, gli organi legislativi e del governo centrale – dai parlamenti al consiglio dei ministri – non sono stati ancora formati. Questo stallo blocca i processi di riforma legati all’adesione all’Unione.
Non è una coincidenza. Gli ostacoli sono architettati dai leader delle tre comunità nazionali, o meglio dai loro partiti nazionalistici, che Bruxelles considera come suoi partner principali. Il problema più serio riguarda il sistema giudiziario, che è sotto il controllo assoluto della politica. Bruxelles, invece, ritiene che le riforme realizzate siano significative, mostrando un cinismo del quale l’opinione pubblica è perfettamente consapevole. La candidatura ufficiale della Bosnia Erzegovina è quindi sempre più lontana e la data di inizio dei negoziati con l’Ue è incerta. I leader politici nazionali sono interessati solo a mantenere lo status quo, l’unico modo per conservare il potere. Ogni passo verso l’Europa per loro può essere fatale: significherebbe, infatti, un funzionamento migliore delle istituzioni statali, del sistema giudiziario, della libertà di stampa e una riduzione delle tensioni etno-nazionali.
In Montenegro siamo al settimo anno di negoziati, ma solo tre dei 32 capitoli aperti sono stati chiusi. E ormai si parla di una sospensione delle trattative da parte dell’Ue. La causa è la mancanza di progressi per quanto riguarda i capitoli 23 e 24 (sistema giudiziario, stato di diritto, libertà e sicurezza). La corruzione è diffusa anche ai massimi livelli, come ha denunciato la Commissione europea nel suo rapporto di maggio. Eppure, tra il 2007 e il 2020 il paese ha ottenuto fondi europei per più di mezzo miliardo di euro.
La Serbia è entrata nel processo di adesione all’Unione in modo efficace. Ha ottenuto lo status di candidato nel 2012, ha avviato i negoziati nel 2014, ha aperto 18 dei 34 capitoli e ne ha chiusi due. Tuttavia il mancato riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo rappresenta un problema insormontabile. Il sostegno europeo, attraverso il processo di Bruxelles, un’iniziativa di mediazione aperta nel 2011, non ha dato risultati. A questo si aggiunge il fatto che, come la Croazia, la Serbia coltiva una visone ideologica del passato estremamente reazionaria, cosa che complica ulteriormente il suo cammino verso un futuro europeo.
Sia la Bosnia Erzegovina sia il Kosovo sembrano fare del loro meglio per stare lontani dall’Ue
La Macedonia del Nord non ha ancora aperto i negoziati di adesione, anche se ha fatto importanti – e dolorose – concessioni, cambiando nome su richiesta della Grecia. Il miglioramento delle relazioni di vicinato tra i paesi dell’area è sempre stata una priorità del “processo di Berlino”; il nuovo governo di Skopje ha raggiunto l’obiettivo anche firmando, nel 2017, un trattato di amicizia e cooperazione con la Bulgaria. Tuttavia, l’avvio dei negoziati di adesione all’Unione, pur se raccomandato dalla Commissione europea, è stato interrotto per volere della Francia nel giugno del 2019.
Anche in Kosovo il processo di avvicinamento all’Unione è fermo. Il paese, come la Bosnia Erzegovina, non ha ancora lo status di candidato. Ed entrambi sembrano fare del loro meglio per stare lontani dall’Ue. In questo l’Europa ha fallito. Oggi il Kosovo è sull’orlo del collasso, a causa dei complicati rapporti tra albanesi e serbi, della corruzione, della criminalità e di radicalismi di ogni tipo.
L’Albania è ufficialmente candidata dal giugno 2014, ma i problemi interni, la corruzione e il potere della criminalità organizzata ostacolano il cammino intrapreso. Le elezioni anticipate difficilmente risolveranno la situazione. E nemmeno il parere favorevole della Commissione europea è stato di grande aiuto.
Una nuova geopolitica
Nei Balcani occidentali molti speravano che i paesi più avanti nelle trattative avrebbero aderito all’Unione nel 2025. Sembrava logico che il rispetto dei criteri di adesione fosse un dato indiscutibile e che Bruxelles avrebbe continuato a mostrare interesse per l’allargamento.
In questo contesto la dichiarazione dello scorso agosto della cancelliera Merkel era sembrata incoraggiante. Intanto, però, la realtà globale è profondamente cambiata : dalle nuove relazioni tra Stati Uniti ed Europa al fattore russo, dal ruolo della Turchia agli sviluppi in Medio Oriente, dalla questione dei migranti alla “riorganizzazione” delle relazioni all’interno dell’Unione e ai suoi confini.
La Turchia sta cercando apertamente di riconquistare il suo peso imperiale e la Cina sembra capace di colmare il vuoto lasciato dall’Ue
Le relazioni geopolitiche globali che coinvolgono i Balcani occidentali stanno diventando più delicate. Gli Stati Uniti stanno cercando di accrescere la loro influenza strategica nella regione. Serbia e Bosnia Erzegovina sono gli unici due paesi dei Balcani per i quali l’adesione alla Nato, di grande importanza per Washington, non è prevista. A Belgrado l’influenza russa è diretta ed esplicita. E in Bosnia, la Repubblica Serba (una delle due entità del paese) condivide gli obiettivi politici di Belgrado e ostacola i progressi in direzione europea.
La Turchia sta cercando apertamente di riconquistare il suo peso imperiale in Albania, Kosovo, Macedonia del Nord, Serbia (soprattutto nella provincia del Sangiaccato), e Bosnia Erzegovina. Mentre su Sarajevo l’influenza è prevalentemente religiosa e culturale, su Belgrado è economica. Inoltre, la Cina sembra in grado di colmare rapidamente il vuoto economico lasciato dall’Unione.
Il moderato ottimismo che nonostante tutto sopravvive si nutre quindi di nuovi progetti, come l’iniziativa dell’Organizzazione regionale per la cooperazione giovanile e i piani di cooperazione rafforzata, discussi nei vertici di Londra e Poznań del processo di Berlino. Progetti di questo tipo contribuiscono senza dubbio a creare un’atmosfera positiva attraverso l’incontro e la conoscenza tra i cittadini. Tuttavia, l’energia negativa che arriva dalla politica – interessata esclusivamente alla sopravvivenza di istituzioni svuotate di senso e di governi corrotti sostenuti da tensioni etniche e sociali – è molto più forte dell’ottimismo dei giovani che, di conseguenza, emigrano in massa.
Ci sono molti esempi nella vita politica quotidiana dei Balcani della mancanza di volontà politica per trovare ai problemi una soluzione che potrebbe avere effetti positivi sulla stabilità regionale. Eccone uno. Quando le organizzazioni della società civile dei paesi balcanici hanno deciso di istituire una commissione regionale per accertare i fatti legati ai crimini di guerra e alle altre gravi violazioni dei diritti umani nella ex Jugoslavia, raccogliendo più di mezzo milione di firme, nessun governo ha appoggiato l’iniziativa.
Il coinvolgimento dei governi regionali nelle attività del “processo di Berlino” è in calo. La mancanza di reali prospettive di adesione rende difficile attuare le disposizioni dei precedenti vertici. Sempre più spesso, e soprattutto in Bosnia Erzegovina, si ha l’impressione che l’Unione europea non abbia la volontà politica di affrontare seriamente i problemi del paese e le storture legate al suo assurdo sistema istituzionale.
È in crescita, invece, la convinzione che il vero interesse della comunità internazionale sia mantenere lo status quo, che conviene alle oligarchie al potere.
La Croazia alla guida dell’Unione
Tracce di quanto è stato detto si possono individuare nel processo di integrazione europea dei Balcani occidentali, nei diversi atteggiamenti dei paesi dell’Ue nei confronti dell’allargamento, e anche nei rapporti tra i paesi che si stanno avvicinando all’Unione. Nella regione le relazioni sono al punto più basso dai tempi delle guerre nell’ex Jugoslavia degli anni novanta. Questo vale soprattutto per i rapporti tra Croazia e Serbia, tra Croazia e Bosnia Erzegovina e tra quest’ultima e la Serbia. Anche le relazioni tra Serbia e Montenegro sono pessime, e né Belgrado né Sarajevo riconoscono il Kosovo.
In questo contesto, ci si chiede che contorni avrà la presidenza semestrale croata del consiglio dell’Unione europea, cominciata il 1 gennaio 2020. Il paese ha problemi praticamente con tutti gli stati della regione, in particolare con Bosnia Erzegovina, Serbia e Slovenia. Confini contestati, espropriazioni che risalgono all’epoca della Jugoslavia e questioni relative ai morti e ai dispersi durante la guerra: le questioni irrisolte sono diverse. Oltre a questo, in Bosnia Erzegovina c’è una forte ostilità verso l’interferenza di Zagabria negli affari interni del paese.
La Croazia, da parte sua, continua a sostenere il progetto dell’Unione democratica croata di Bosnia Erzegovina (Hdz Bih, nazionalista) di modificare la legge elettorale in modo da favorire i propri candidati. In sostanza, la strategia politica dell’Hdz Bih si riduce alla negazione totale, aperta e aggressiva, di qualsiasi afflato civile nell’organizzazione dello stato. Il partito non nasconde nemmeno il suo appoggio alle forze nazionaliste ed estremiste condannate dal Tribunale penale internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia (Tpi). Il rifiuto dei verdetti del Tpi è pubblicamente incoraggiato, mentre i leader nazionalisti e i loro sodali criminali sono salutati come eroi.
Queste posizioni non sono più isolate, ma fanno parte della politica del governo croato. Va inoltre notato che gli avvertimenti ripetutamente inviati alla Croazia dall’Unione europea sono sistematicamente ignorati. È difficile che una politica di questo tipo possa godere della necessaria credibilità durante la presidenza di turno dell’Unione e, in particolare, che possa facilitare il processo di avvicinamento all’Europa degli altri paesi balcanici.
Considerata la situazione dopo le elezioni europee del 2019, è difficile prevedere se, o in che misura, la politica dell’Unione sull’allargamento cambierà. Finora nulla fa pensare che l’atteggiamento europeo in futuro sarà diverso. Il funzionamento dell’Unione sta diventando sempre più intricato e nuovi cambiamenti strutturali sembrano improbabili.
Se i Balcani non ne faranno parte, l’Ue non potrà essere definita un vero progetto di pace, prosperità e sicurezza
Nel complesso, il panorama politico balcanico ricorda la situazione che si è creata in Europa e nel mondo: mancanza di fiducia, scarsità di soluzioni costruttive e incapacità di guardare al futuro. Purtroppo, inoltre, i Balcani sono sempre più protesi verso il passato e continuano ad applicare certi “vecchi schemi” in modo distruttivo.
Difficile dire se, in questo contesto, sia preferibile accelerare il processo di allargamento nel suo insieme, con tutti i problemi che la cosa comporterebbe, o escludere i paesi i cui leader, pur di rimanere incollati al potere, non mostrano una vera volontà di integrazione. Non perché la risposta non sia evidente, ma perché l’Ue deve stabilire quale sia l’esito migliore per l’Europa nel suo complesso.
In tutto questo, il margine di manovra della Commissione europea è limitato e influenzato da almeno tre fattori. Innanzitutto, l’Unione europea è tornata a essere un progetto aperto, a causa di diversi problemi, interni ed esterni. Tuttavia, se i Balcani non ne faranno parte, non potrà essere definita un vero progetto di pace, prosperità e sicurezza. In secondo luogo, le influenze esterne nella regione, soprattutto quelle di Stati Uniti, Russia e Turchia, si stanno rafforzando e spesso sono in conflitto con gli interessi europei; in molti paesi candidati all’adesione, e anche in alcuni stati dell’Ue, queste influenze sono ormai considerate accettabili. In terzo luogo, la cooperazione regionale si sta indebolendo. Crescono invece tensioni e contrasti.
L’unica cosa che la nuova Commissione non dovrebbe permettere è il protrarsi di questa situazione di incertezza. Servono risposte chiare e nette e politiche più coraggiose. A conti fatti, in termini generali come per quanto riguarda l’integrazione europea, la situazione nei paesi dei Balcani occidentali è peggiore rispetto a qualche anno fa. E i motivi di ottimismo sono minori di quanto a Bruxelles non si voglia vedere o ammettere.
(Traduzione di Francesca Barca)
Questo articolo è uscito su Green European Journal.
In collaborazione con VoxEurop.
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