Quella del 9 aprile è stata una giornata polverosa, con meno traffico e più checkpoint sulle strade. Non ci sono state cerimonie ufficiali per il decimo anniversario della caduta del dittatore Saddam Hussein. Mio cognato Ali ha deciso di non andare a lavorare quel giorno e ha ordinato alle sue due figlie di fare lo stesso. Aveva paura che i simpatizzanti del vecchio partito Ba’ath “celebrassero” l’occasione con qualche autobomba. Gli iracheni sono divisi: c’è chi lo definisce “il giorno della liberazione”, chi “il giorno dell’occupazione”. Nella regione autonoma del Kurdistan si celebra la liberazione con due giorni di festa.
Quel giorno sono passato per piazza Firdos dove sorgeva il famoso monumento di Saddam abbattuto dai marines statunitensi. I 38 pilastri e la base che reggeva la statua erano ancora là. La sera la tv pubblica ha trasmesso alcuni spezzoni di un documentario sull’abbattimento del monumento, ma senza mostrare il blindato statunitense che tirava giù la statua. Sulla tv Furat un giornalista intervistava le persone che passavano per la piazza chiedendogli se quel momento aveva un significato per loro.
C’è chi ha risposto:
“Sì, ne aveva, però…”.
“Quel giorno ero al balcone e gridavo: ‘Abbasso il dittatore!’”.
“Ero sconvolto dalla presenza dei soldati e del blindato statunitense e mi chiedevo: ‘Cosa stanno facendo?’”.
Il giornale d’opposizione Al Zaman ha pubblicato alcuni dati sull’Iraq, a dieci anni dall’inizio della guerra: più di 121mila civili uccisi, 1,33 milioni di persone fuggite dalle loro case, 2,7 miliardi di dollari spesi in armi, un tasso di disoccupazione del 58 per cento.
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