“Non venire in quest’inferno, rimani lì!”. Questo è stato il consiglio di mio fratello dopo il mio terzo tentativo di lasciare Erbil, nel nord dell’Iraq, per tornare a Baghdad.
Già cinque chilometri a sud di Erbil abbiamo visto le prime colonne di profughi provenienti da Mosul: decine di migliaia di persone hanno abbandonato le loro case per sfuggire ai combattenti dello Stato islamico dell’Iraq e del levante, che hanno conquistato la città con un’offensiva lampo, e ai bombardamenti delle forze governative sulle postazioni degli insorti. Venti chilometri a sud di Kirkuk, abbiamo sentito almeno quattro esplosioni in un giorno.
Al terzo check point controllato dai militari curdi che abbiamo incontrato sulla nostra strada ci è stato consigliato di tornare a Erbil, perché la strada è interrotta.
Un altro avvertimento da Baghdad l’ho ricevuto per email. È una poesia intitolata I barbari stanno arrivando, di Lutfia al Dulaimi. Le ultime notizie su schiere di miliziani che sventolano la bandiera nera jihadista in viaggio verso la capitale non sono più solo un incubo, ma una realtà. Nella capitale la paura dei “barbari” ha fatto triplicare il prezzo delle armi al mercato nero. “Gli abitanti, soprattutto quelli dei quartieri sciiti più poveri, si preparano a difendersi”, mi ha detto mio fratello, un militare in pensione.
Allo stesso tempo il collasso delle forze armate irachene favorisce la formazione di milizie sciite sostenute dall’Iran, che si presentano come i difensori dei luoghi sacri dell’islam.
A Erbil ho partecipato a una conferenza sul futuro dei cristiani in Iraq. Uno degli altri relatori mi ha detto di aver preso in affitto un appartamento per la sua famiglia, che farà venire al nord se la situazione continua a peggiorare. Insieme ad altri trenta giornalisti e scrittori ci siamo chiesti cosa possiamo fare in questo momento tragico.
Uno dei partecipanti ha fatto notare che in questo momento storico si stanno ridisegnando i confini del Medio Oriente, dando vita a una mappa diversa da quella uscita dagli accordi Sikes-Picot di quasi cent’anni fa. Noi intellettuali abbiamo deciso di creare una specie di laboratorio culturale per aiutare la popolazione a comprendere quello che sta accadendo e costringere i politici a dire la verità su questa grave sconfitta nazionale.
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