A Damasco va in onda Il padrino
Due uomini parlano nella notte, uno di loro visibilmente sconvolto per aver appena ucciso una persona. “Ricordati le parole di tuo padre”, gli dice l’altro. “Tuo padre diceva sempre: non si torna indietro sulle scelte fatte. Quando arrivi a far scivolare una vita umana fra le tue mani vuol dire che sei a un punto di non ritorno”.
“Questa è la prima volta che ti vedo uomo”, conclude con calore fraterno, mentre l’inquadratura si apre ad abbracciare il panorama di una città vibrante di luci. Non è Los Angeles, è Damasco. Non è un action movie americano, ma un remake a puntate del Padrino made in Siria che va in onda in questi giorni su vari canali arabi.
La città che ci siamo abituati a vedere sui nostri schermi nell’estenuante catena di esplosioni-bombardamenti-morti riguadagna il prime time durante il Ramadan, mese che nel mondo arabo-islamico non significa soltanto digiuno e preghiera, ma anche abbuffata di fiction televisiva. Dal boom satellitare delle televisioni panarabe nel 2000, il mese sacro dell’islam coincide con il massimo investimento nella produzione di ore televisive: le fiction a puntate (musalsalat), una per ogni giorno di digiuno, sono la portata principale servita insieme all’iftar, il pasto del tramonto.
Quest’anno nel menù televisivo del Ramadan c’è anche il curioso Padrino ambientato a Damasco, in un periodo che va dalla fine degli anni cinquanta all’inizio del nuovo millennio. Due famiglie in lotta, fino alla fine, che provano, all’inizio della prima puntata, a parlarsi e a negoziare, a disfarsi della parola “vendetta”. Ma da subito è chiaro che non c’è modo di perdonare, il giovane protagonista deve seguire le leggi della famiglia. E l’amico è costretto a ricordaglielo, sullo sfondo di una Damasco notturna: “Tuo padre diceva sempre: non si torna indietro sulle scelte fatte”.
È difficile, guardando questa Damasco che brilla e ascoltando la lezione del padre al figlio, non proiettare la finzione televisiva sulla realtà della Siria di oggi. A Damasco il presidente Bashar al Assad resiste ancora e sembra aver fatto tesoro degli insegnamenti del padre Hafez, che pur di restare al potere non esitò a ordinare il massacro ad Hama nel 1982, quando la città fu distrutta e migliaia di persone vennero uccise per sradicare la rivolta islamista.
Ma c’è qualcosa che colpisce ancora di più del parallelo tra questa famiglia televisiva guidata da un padre-padrone e la saga della dinastia degli Assad. Quest’anno sugli schermi del Ramadan ci sono due Padrini televisivi made in Siria. Il primo, quello girato a Damasco, si chiama Al Arrab (Il padrino, per l’appunto), è diretto dal regista Muthanna Sobh ed è prodotto da Sapi, società controllata da Mohamed Hamsho, importante uomo d’affari vicino alla famiglia Assad. Hamsho è proprietario della rete televisiva Addounia, schierata con il presidente siriano e, fin dall’inizio della crisi, impegnata in una feroce campagna contro le proteste di piazza, liquidate come “cospirazione”.
Il secondo è diretto da Hatem Ali, regista di Omar, la soap opera storico-religiosa più costosa della storia della televisione araba. S’intitola anch’esso Al Arrab (Il Padrino) , ma è accompagnato dal sottotitolo Nadi as Sharq, ovvero Club Oriente, il nome del casinò che sarà al centro della battaglia fra le famiglie protagoniste. La soap è interpretata da Jamal Suleiman, attore siriano fra i più quotati del mondo arabo. Suleiman e Ali, che vivono entrambi in Egitto, sono noti per le loro posizioni contro il regime, e per questo la stampa ha subito ribattezzato la serie “Il padrino dell’opposizione”.
Nella prima scena vediamo Suleiman pregare sulla tomba del padre, in un villaggio siriano dove si indovina una certa ostilità degli abitanti verso il figlio partito povero e rientrato con in dote un impero di soldi e potere.
In una recente intervista, Suleiman ha spiegato che la scalata del suo personaggio riflette le condizioni particolari attraversate dalla Siria negli ultimi decenni. L’attore non cita espressamente Hafez al Assad, ma il riferimento al defunto presidente siriano salta agli occhi: per le origini modeste della sua famiglia, per l’incredibile ascesa all’interno del partito Baath, la presa del potere e la formazione di un impero di famiglia, politico ed economico. Parlando del suo Padrino, Suleiman sottolinea: “Tutta la sua famiglia, che è una famiglia di poveri, ne approfitta, non solo i suoi figli, ma i figli dei suoi figli, i figli dello zio…”.
Il riferimento alla famiglia Makhlouf e alle sue connessioni mafiose con il regime degli Assad è chiaro: Rami Makhlouf, cugino di Bashar, ora formalmente ritiratosi dagli affari, è il businessman più potente della Siria, con attività che vanno dall’immobiliare ai mezzi d’informazione alle banche private. Non a caso Nadi as Sharq, come nota Suleiman, punta il dito su una generazione di imprenditori salita al potere dopo il 2005, e racconta come questo capitalismo rampante e corrotto abbia preso il controllo del paese.
Rafi Wehbe, attore e autore della serie, noto al pubblico arabo per aver firmato diverse satire televisive del potere, sottolinea che il 2005 è un anno cruciale per capire la rivolta del marzo 2011. “Le riforme economiche promosse in quegli anni sono state fondamentali per smantellare lo stato e formare una generazione di uomini d’affari corrotti e compromessi con gli alti ranghi dell’intelligence”. Una vera e propria mafia, il cui ritratto sarebbe al centro del Padrino televisivo firmato da Wehbe.
Sugli schermi affollati del Ramadan è ancora presto per dire chi vincerà nella competizione fra il primo Padrino, più letterario e romanzato, e quest’ultimo, più drammaticamente attuale nella sua analisi sociologica del potere siriano prima del 2011. Da entrambi emerge un tratto comune e malinconico: il ritratto di un paese trasformato in un business di famiglia e martoriato dalla lotta del potere per il potere.
È la chiosa della lezione del (primo) Padrino al figlio: “Quando hai vissuto tutta la vita dentro la giungla non puoi andare via. Ci sono due cose, figlio mio, dalle quali non fuggiremo mai: la politica e il nostro orgoglio”.
Il cugino di Bashar al Assad, Rami Makhlouf, già nel maggio del 2011 ammoniva: “Non andremo via… Quando soffriremo, non soffriremo da soli”.
E quella non era una soap opera.