Mai come nelle ultime settimane Budapest somiglia tanto alle capitali multiculturali dell’Europa occidentale. Dall’inizio dell’anno sono stati registrati più di 80mila arrivi di migranti irregolari nel territorio ungherese.

Scene inimmaginabili: gruppi di afgani, pachistani, bangladesi, siriani che vagano per le strade nella capitale ungherese. Senza molte idee su come proseguire il loro viaggio verso la Germania o raggiungere il centro di accoglienza a cui sono stati assegnati per il tempo necessario a esaminare la loro richiesta di asilo.

Si vedono famiglie, a volte con neonati, gruppi di giovani vestiti bene che usano i loro smartphone, sulle terrazze dei bar o al fresco sull’isola Margherita. Altri ancora si trascinano nei parchi o vicino alle stazioni ferroviarie, con vestiti rovinati. Chi se lo può permettere dorme in un albergo o negli ostelli della gioventù, altri però sono costretti a passare la notte all’aperto.

In piazza Blaha Lujza, l’associazione Food not bombs ha appena dato da mangiare ad alcune famiglie afgane che riposano a qualche metro di distanza dai senzatetto che di solito passano la notte nella piazza. “Avevo appena ricevuto lo stipendio, stavo tornando a casa con la cena e mi sono ritrovata faccia a faccia con loro. I mezzi d’informazione ne parlano da giorni, ma era la prima volta che li vedevo”, racconta Ági, una guida turistica sui 40 anni.

“C’era un gruppo di una quindicina di persone davanti alla stazione Nyugati. Ho offerto dei gelati a due bambini piccoli e il giorno dopo sono tornata con del cibo”, prosegue, scaricando il portabagagli della sua macchina pieno di provviste che dà all’associazione a cui si è unita il giorno stesso: un gruppo di amici che ogni settimana cucinano e distribuiscono pasti a chi non ha di che nutrirsi. “Ho trovato questa associazione su internet. È bello vedere che c’è gente che si dà da fare, ma è una piccola minoranza. E il nostro governo incoraggia il razzismo”, si rammarica.

Da una camionetta della polizia quale scendono due agenti con tanto di manganelli e manette. Ma è un falso allarme: i due si sono fermati per comprare un panino. Nessuno si è preoccupato: i migranti sono tranquilli (hanno i documenti rilasciati qualche giorno prima dall’ufficio immigrazione, quando hanno attraversato la frontiera) e i volontari sono abituati: “La polizia ci lascia fare senza dire niente, non abbiamo mai avuto problemi”, commenta Zsófi.

Arriva una coppia di giovani sorridenti. Sono rom del quartiere, portano coperte e cuscini per la notte

Zsófi si occupa di tutto, dal cibo all’assistenza. Quando non lavora per il banco alimentare ungherese, dirige le operazioni di distribuzione di Food not bombs.

La campagna di xenofobia lanciata dal governo ha risvegliato le coscienze, ci conferma, e molte persone si sono unite all’associazione in questi ultimi giorni. Le segnalano per telefono un altro gruppo di migranti che si trovano in piazza Rákóczi, un po’ più lontano sul grande viale che circonda il centro della città. “Prima siamo andati alla stazione Keleti, ma c’erano già dei volontari di un’altra associazione. Cerchiamo di coordinarci per sapere dove si trovano i migranti e dove sono già previste delle distribuzioni di pasti”.

Una ventata d’aria fresca

Alcune famiglie – anche in questo caso afgane – sono sedute sulle panchine. Per i volontari alle prime armi, non è sempre facile individuare i migranti. “Lui era un afgano, è vero, ma era un turista! Parlava almeno cinque lingue. Ha parlato un po’ con i suoi compatrioti ed è andato a comprargli delle bottiglie d’acqua”, dice Zsófi. Arriva una coppia di giovani sorridenti. Bangladesi? Sbagliato di nuovo! Parlano ungherese, sono dei rom del quartiere che portano coperte e cuscini per la notte e spiegano: “Abbiamo anche distribuito dei panini alla stazione di Kelenföld. È una situazione talmente triste… dobbiamo aiutarci tra noi”.

Nel giro di poco tempo nel paese si è formato un grande movimento di solidarietà, nato su Facebook e che si è poi trasferito sul campo. Il gruppo Migration aid è solo uno tra i tanti, ma non passa ora senza che i suoi cinquemila volontari si scambino messaggi come: “Sono con una donna che cerca la sua famiglia e che non può chiamare i parenti perché ha perso la batteria del telefono. Chi può fornirne una?”, o ancora: “C’è una famiglia con un neonato davanti alla stazione Keleti. Chi può portare dei pannolini?”.

Si tratta di dare da mangiare e da bere, ma soprattutto di fornire indicazioni e aiutare le persone a salire sul treno giusto, e di ritrovare i membri dispersi di una famiglia. Due donne di settant’anni, dall’aspetto borghese di chi viene dalle colline di Buda, aiutano un afgano di circa 35 anni a ritrovare i suoi familiari davanti alla stazione Nyugati: “Mi dia il nome di suo fratello, ha una sua foto? Ci sono delle persone al campo di Debrecen, cercheranno di ritrovarlo. Ho bisogno del suo numero di telefono, del suo indirizzo email e del suo contatto su Facebook”.

Il gruppo Cane a due code usa la satira per ridicolizzare la xenofobia

L’uomo di origine afgana racconta: “Aspettiamo mio fratello davanti alla stazione da ieri mattina, non si può partire per la Germania senza di lui. Con la mia famiglia ho dormito in un parco, siamo stati cacciati dalla polizia. Sono pazzi, sono arrivato dieci giorni fa in Ungheria e sono già passato da tre diversi campi di accoglienza”.

Le manifestazioni di solidarietà sono una ventata d’aria fresca per questi volontari che non tollerano più la strumentalizzazione politica riguardo ai migranti. “È nostro dovere mostrare al mondo e a noi stessi che non siamo tanto primitivi come il nostro governo”.

La solidarietà nei confronti dei migranti si esprime anche in modo indiretto con l’umorismo e la presa in giro. È questo l’ambito preferito del popolare gruppo satirico Mkkp (Cane a due code), che riesce e mettere in ridicolo le campagne xenofobe del governo.

L’Mkkp ha lanciato una spettacolare campagna di comunicazione attraverso la quale ha raccolto donazioni per 100mila euro nel giro di cinque giorni. I cartelloni affissi dal governo lungo le strade dicono: “Se vieni in Ungheria, non puoi rubare il lavoro agli ungheresi”. Ma l’Mkkp ha prodotto cartelloni identici con la scritta in inglese: “Come to Hungary, we have jobs in London!” (Venite in Ungheria, abbiamo posti di lavoro a Londra).

La consulta nazionale sull’immigrazione e il terrorismo nella parodia è diventata “L’insulto nazionale sull’immigrazione e il terrorismo”.

Migranti ricevono cibo e bevande alla stazione di Keleti a Budapest, il 2 luglio 2015. (Zoltan Balogh, Ap/Ansa)

“Questa mobilitazione è straordinaria. Non ci conoscevamo, il gruppo è stato creato ieri sera e oggi siamo già una ventina di persone”, gioisce una ragazza sulla banchina della stazione di Keleti, dove si distribuisono i pasti. Una donna anziana spunta dal nulla con un carrello pieno di provviste che spariscono in pochi secondi.

Un fotoreporter della radiotelevisione pubblica (Mtva) afferma: “Abbiamo delle istruzioni precise: è vietato fotografare bambini o persone in difficoltà”.

Preoccupato, insiste: “Mi raccomando, non svelate la mia identità. Lavoro per questa merda di governo. Io sono un fotografo impegnato nel sociale, ma a dire il vero, sono l’unico nella mia squadra di lavoro”.

Le tv pubbliche e quelle private danno due versioni opposte della realtà dei migranti

Secondo quanto confidato da un cameraman, i mezzi d’informazione pubblici devono attenersi alla retorica ufficiale: i migranti non sono profughi, ma migranti economici, approfittatori, una minaccia per l’identità cristiana dell’Europa e potenziali terroristi. Un discorso talmente falso, stando alle cifre diffuse dall’Unhcr (i profughi sono l’80 per cento), che il governo è stato obbligato a stemperarlo un po’.

Le tv private, invece, raccontano un’altra storia. Due grandi canali parlano regolarmente nei loro notiziari – i più seguiti – delle azioni di solidarietà, tanto che perfino la moglie di Viktor Orbán si è fatta fotografare mentre distribuiva con la chiesa evangelica dei pacchi di viveri per i bambini dei rifugiati.

Una quantità di regali

Tutto è calmo vicino alla stazione di Szeged, un passaggio quasi obbligato per i migranti che prendono il treno con un pass gratuito fornito dall’ufficio immigrazione per recarsi nel centro di accoglienza che gli è stato assegnato per il periodo necessario all’esame della procedura d’asilo, o per chi ha deciso di raggiungere direttamente l’Austria o la Germania.

I volontari del gruppo Migszol (Solidarietà per i migranti) mettono ordine tra i viveri donati dalla popolazione locale: bottiglie d’acqua, cibo, abiti e scarpe. “Abbiamo ricevuto quantità incredibili di regali”, racconta Márk Kékesi, coordinatore della squadra. “Non abbiamo alcuna esperienza, abbiamo lanciato l’operazione solo dodici giorni fa e impariamo giorno per giorno”. Il comune di Szeged, guidato dai socialisti (ultimo importante bastione al livello nazionale), ha messo a loro disposizione un capanno, una fonte d’acqua e dei bagni.

I volontari parlano con alcuni migranti che aspettano il prossimo treno per il centro di Debrecen, un’ex caserma dell’esercito sovietico dove tremila persone vivono ammassate in condizioni difficili. “Abito proprio accanto alla stazione e da mesi vedo persone che arrivano e mi sembra normale venire a dare una mano”, spiega Ákos. “Ci sono storie molto forti, aiutiamo a ritrovarsi famiglie che sono state separate tra la Serbia e l’Ungheria”. Contattando nel cuore della notte uno zio in Germania per esempio.

Sulla banchina della stazione, a una ventina di metri di distanza, una coppia di giovani sposi è in posa a farsi fotografare. Nel giro di pochi minuti tutto cambia. Due autobus scaricano decine di persone, adolescenti afgani, pachistani, bangladesi. Hanno appena trascorso uno o due giorni in carcere dopo essere stati fermati alla frontiera. Si lavano le mani, il viso e i denti, si rasano, si fanno curare i piedi pieni di piaghe. È anche il momento di ricaricare gli smartphone per parlare via Skype con i genitori nel paese di origine o chiamare i parenti già in Germania.

La popolazione ungherese non era preparata a questa campagna xenofoba

Un treno scarica passeggeri provenienti dalla capitale. Alcuni hanno lo sguardo scuro mentre si fanno strada tra i migranti. Un’anziana donna dice sottovoce: “Ah, non ci posso credere, è a loro che danno da mangiare!”.

“Probabilmente penserà, come molti altri, che queste persone sono venute fin qui dalle loro valli in Afghanistan perché c’è cibo gratis”, commenta Márk. I volontari ne sono sicuri: il governo vuole suscitare proprio questo tipo di reazione. Che altra spiegazione dare a questa logistica disastrosa che consiste nel far transitare i migranti di stazione in stazione invece di affittare degli autobus diretti nei vari centri di accoglienza?

Nonostante i piani e le spiegazioni dettagliate elaborate dal Comitato Helsinki e distribuite dai volontari, trovare la propria strada rappresenta la principale difficoltà per i migranti. “Per cinque giorni di fila, gli autobus dell’immigrazione hanno portato decine di persone proprio dopo la partenza dell’ultimo treno”, ricorda Márk.

Fa tuttavia attenzione a non dare l’impressione di fare troppo per i rifugiati. “Anche i tassisti vorrebbero che ci si aiutasse un po’ di più tra ungheresi, dovremmo permettergli di taglieggiare i migranti in tranquillità, costringendoli a pagare 600 euro per portarli fino a Budapest”, ironizza.

Migranti dormono alla stazione di Budapest, il 3 agosto 2015. (Laszlo Balogh, Reuters/Contrasto)

Márk continua a spiegare che il movimento di solidarietà è partito dalla facoltà di scienze umane, ma ci sono anche persone della piccola comunità mediorientale di Szeged, come un medico iracheno e alcuni studenti sauditi di odontoiatria. “Tra i volontari, ci sono alcuni sostenitori di Fidesz che disapprovano comunque l’atteggiamento di Orbán nei confronti dei migranti. È venuto anche un giovane di Jobbik (partito di estrema destra) che voleva impegnarsi con noi, perché si era commosso vedendo dei bambini. Ha due sorelline e non sopporta il pensiero che dei bambini possano vivere queste cose”.

Del movimento di solidarietà fanno parte anche le chiese: i luterani e i battisti. Tutti tranne la chiesa cattolica, vicina alla coalizione di governo. “Alcuni francescani hanno accettato di metterci a disposizione un loro piccolo locale per preparare il cibo di mattina, ma ci hanno pregato di mantenere il segreto perché hanno paura delle loro gerarchie”.

Accogliete gli stranieri

I migranti sono solo gli ultimi avversari in ordine di tempo di Viktor Orbán, dopo i comunisti neoliberali, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e i tecnocrati dell’Unione europea. L’ondata migratoria che attraversa l’Ungheria è stata un colpo di fortuna per distrarre l’attenzione dall’azione di governo che ha accumulato errori su errori. Il partito Fidesz al potere subisce sempre di più la concorrenza del partito di estrema destra Jobbik.

La Germania è il paese giusto, accetta tutti quanti, dice Mohamed

Secondo Gábor Gyulai, coordinatore del programma per i rifugiati del Comitato Helsinki, un’organizzazione che fornisce assistenza giuridica ai migranti, “la popolazione ungherese non era preparata a questa campagna xenofoba e forse non ha i mezzi per opporre resistenza. Si osserva una polarizzazione della società, con una mobilitazione e una presa di coscienza del settore civile. Riceviamo per esempio molte testimonianze di solidarietà da parte di persone non necessariamente politicizzate, ma scandalizzate da questa campagna”.

Uno degli otto milioni di questionari della consultazione nazionale su “immigrazione e terrorismo” è stato restituito. “Ci sono talmente tante cose più importanti per gli ungheresi: che un terzo dei bambini vive in condizioni di povertà, che centinaia di migliaia di persone lasciano il paese, la corruzione”.

Questo movimento di solidarietà con i migranti non sembra preoccupare Viktor Orbán, che continua a suonare la sua musica, seguendo il suo spartito, barocco e dissonante. “Il multiculturalismo significa coesistenza tra islam, religioni asiatiche e cristianesimo. Faremo tutto ciò che è in nostro potere per risparmiarlo all’Ungheria. Non vogliamo una mescolanza generalizzata”, ha detto lo scorso giugno. Per poi vantarsi, pochi giorni dopo, per “la cultura del rispetto in Ungheria” davanti al congresso delle banche arabe che teneva a Budapest la sua assemblea generale annuale.

“Noi proteggiamo l’Ungheria, ma proteggiamo al tempo stesso l’Unione europea, e non sarebbe la prima volta nella storia dell’Ungheria”, ha dichiarato, alludendo all’occupazione ottomana dell’Ungheria nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo. Cosa che non impedisce alle autorità ungheresi di lavorare con la Turchia al progetto di costruzione di una monumentale moschea a Budapest.

Migranti fuori della stazione di Keleti a Budapest, il 31 luglio 2015. (Attila Volgyi, Xinhua Press/Corbis)

I partiti a sinistra di Fidesz protestano contro le misure adottate contro i migranti. Il piccolo partito Dialogo per l’Ungheria (Pm) incoraggia i suoi attivisti a stracciare ed eliminare i manifesti propagandistici affissi dal governo contro i migranti.

Ridotto di parecchio dopo il 2010, il Partito socialista (Mszp) vuole trasformare il suo antico quartier generale in un centro di coordinamento per le organizzazioni umanitarie. La sinistra ricorda di volta in volta che 250mila ungheresi sono scappati dopo la ribellione contro Mosca nell’autunno del 1956, che è stata proprio l’Ungheria ad aver aperto per prima la cortina di ferro, che il paese ha concesso la cittadinanza a 700mila magiari dei paesi vicini dopo il 2011 e che cinquecentomila ungheresi hanno lasciato il paese negli ultimi cinque anni.

E poi, il patrono ungherese, santo Stefano, diceva che “un paese che ha una sola lingua e una sola tradizione è debole e destinato a sparire. Vi esorto dunque ad accogliere gli stranieri con bontà e a tenerli in grande considerazione, in modo tale che preferiscano restare con voi piuttosto che andare altrove”.

Il braccio rotto

Se lo si cerca su Skype, Muhammad è già un venditore di automobili ad Amburgo. In realtà, però, ha ancora molta strada da fare per arrivarci: ha 17 anni, viene dal Pakistan, vagabonda davanti alla stazione di Budapest, dorme da dieci giorni nei parchi, ha fame, ha solo gli abiti che indossa ed è rimasto senza soldi.

“Siediti, a te posso raccontare”, propone Muhammad. “Sono partito un anno fa, nel mese di giugno del 2014, ho trascorso cinque mesi in Turchia. Lì stavo bene, perché c’erano molti pachistani e stavo insieme ad altri amici. Dopo la Grecia, dove sono rimasto due mesi, ho cercato di scappare da un campo sull’isola di Lesbo, ma mi sono rotto il braccio, ecco, guarda”.

Perché ha lasciato il suo paese e la sua famiglia? “Mio fratello più grande è stato ucciso. Allora mia madre mi ha detto: ‘È meglio per te partire, così sarai al sicuro’. Suo fratello era attivista politico ed era stato ucciso nel corso di una manifestazione. Aveva appena finito il liceo e sperava di proseguire gli studi “laggiù”. Laggiù significa in Germania. Per lui, come per decine di esiliati non ci sono altre destinazioni possibili. Muhammad andrà a Berlino o Amburgo, dove vivono dei suoi amici.

“La Germania è il paese giusto, accetta tutti quanti, dopo due o tre mesi ti danno i documenti per poter lavorare e la gente non ti crea problemi. Sono fiducioso, andrà tutto bene”.

Spera di rivedere la famiglia? “Se riuscirò ad avere i documenti in Germania potrò tornare di tanto in tanto a trovarli. Di sicuro non mi interesserei alla politica, manterrei un profilo basso. A ogni modo non potranno toccarmi, perché verrei dalla Germania”. “Qui è dura. Dormo nei parchi. Devo chiamare in continuazione mio fratello più piccolo via Skype con il mio telefono. La mia famiglia mi deve mandare dei soldi con la Western Union perché non ho più niente. Ho solo questi…”, afferma, mostrando la sua maglietta. “Mio fratello mi ha detto che, Insciallah, domani potranno mandarmi dei soldi. Non mangio da stamattina e quelle laggiù sono persone che mi porteranno del cibo. Li ringrazio di cuore”.

A Muhammad non resta altro che trovare la strada verso ovest e un mezzo di trasporto. Gli sarebbe sufficiente saltare su un treno diretto a Vienna, la stazione è a una cinquantina di metri, ma la polizia gli impedisce di salirci. “Non so cosa fare, alcuni amici dicono che bisogna camminare fino alla stazione successiva, altri dicono che preferirebbero prendere un taxi per l’Austria. Il car sharing? Di che si tratta?”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo reportage è stato pubblicato all’interno del progetto #OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri nove giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), VoxEurope, Inkyfada (Tunisia), CaféBabel.

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